Regia di Francesco Miccichè vedi scheda film
Il lavoro, la famiglia, gli ultimi giorni di vita di un grande italiano, che fu lasciato solo dallo Stato.
Se io parlo bene di una fiction, io che ci sparo sempre sopra con gusto, potete fidarvi. Questo per la verità è quello che oggi chiamano un docu-fiction, cioè una ricostruzione di eventi reali in parte recitata e in parte composta da materiali d'archivio e recenti sugli eventi narrati, o con interviste effettuate al giorno d'oggi. Ebbene, la parte di finzione è ben recitata e diretta in modo opportuno, in modo aderente ai fatti raccontati. Segnalo in particolare l'interpretazione di Cesare Bocci, che impersona lo stesso Borsellino, e che ne fa un convincente ritratto; tuttavia anche gli altri attori non sfigurano. Vengono evitati il sensazionalismo, i facili effetti, i triti e frusti stereotipi sui film di mafia, e una retorica che sarebbe riuscita fastidiosa.
Alla base di tutta l'operazione sembra esserci un grado di consapevolezza, di convinzione e di sincertià oggi quasi dimenticate nei film per la televisione, che vengono girati svogliatamente e con lo stampino, perché tanto la gente guarda. Qui ognuno crede in quello che sta facendo, e il risultato è dignitoso, come una confessione fatta con il cuore in mano.
Il ritratto del giudice che esce dalle interviste e dalle testimonianze è quello di un uomo coraggioso, con un grande senso del dovere, dell'onestà, del bene e del male. Dopo che era stato assassinato il suo collega Falcone, capì presto che sarebbe stato il prossimo. Però non si ritirò come lo consigliavano, ma volle andare avanti e ottenere più risultati possibili nel poco tempo che gli sarebbe rimasto. Borsellino era anche un uomo di fede, e misteriosamente sentì la sua ora suonare, perché, poche ore prima di essere assassinato, chiese ad un suo amico prete di confessarlo.
Nel film emergono anche l'omertà, le reticenze e la contiguità mafiosa di certi settori delle istituzioni, come pure la semplice paura di chi preferì non mettersi contro il leviatano (Riina). La stessa angenda rossa del giudice, che conteneva preziose rivelazioni e appunti sulle indagini roventi che stava svolgendo, fu fatta sparire subito dopo l'attentato. Uno degli effetti positivi del suo sacrificio fu, che la rabbia popolare smosse le istituzioni di allora, pavide e vigliacche, e colluse, a fare qualcosina per combattere veramente la mafia. Qualcosa fecero, ma non molto. Un'amarezza che infatti rimane è che dopo tanti anni, se si conoscono i nomi degli esecutori, non si sanno ancora quello dei mandanti occulti e altolocati, e di chi semplicemente lasciò fare. Lo stesso giudice, nelle sue ultime settimane di vita, si sentiva abbandonato dalle istituzioni. Lo rincuorava però la sincera dedizione degli uomini della sua scorta, e degli altri che desideravano essegli assegnati in protezione, perché ne ammiravano la dedizione e la convinzione, in mezzo a tanti ipocriti. Uno dei buoni risultati del film è quello di aver ricostruito il rapporto di padre-figli che Borsellino aveva con loro, tra bonari rimproveri, incoraggiamenti, battute, e insegnamenti.
E un'opera interessante per chi ricorda (penso che molti di questi si ricordano dov'erano quando ebbero la notizia dell'attentato), e necessaria per chi non ancora non c'era, e di monito ai creatori delle fiction, sul fatto che anche esse possono essere ben più di un riempitivo dei palinsesti.
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