Regia di Peter Bogdanovich vedi scheda film
Il regista e critico Peter Bogdanovich nel 1971 traduce cinematograficamente quello che la letteratura aveva già da tempo cominciato a mettere a nudo, cioè il "sogno americano" avvilito fuori dalla portata dell'America di provincia, segnata dalla frustrazione e dall'inquietudine. L'ultimo spettacolo raffigura un'umanità disillusa che tocca con mano l'evanescenza del mito della frontiera dove non c'è più niente da conquistare nè terre nuove da scoprire. Con l'uso di una fotografia di taglio moderno si passano in rassegna personaggi tristemente intrisi nella constatazione di non essere in grado di poter sognare altro che di materialità irraggiungibile o dal contenuto esistenziale piuttosto mediocre. Siamo negli anni 50 e gli happy days sono in un'altro posto, nella piccola cittadina texana di Annarene s'intrecciano vite anonime di gente qualunque, e se sono loro il motore della crescita di un popolo e delle sue conquiste, non lo riconoscono e non lo rivendicano se non introiettando su di sè solo i significati dolorosi, davanti alla morte, all'abbandono, alla perdita, si tratti di un sentimento, un'esistenza fisica , uno scenario che muta, un cinema che scompare. Il film si apre e si chiude con la stessa inquadratura sul cinema del paese, l'unica differenza è che nel finale, dopo l'ultimo spettacolo in cui si proietta un classico film americano, Il fiume rosso, per mancanza di spettatori la sala chiuderà per sempre. La trama sembra un vero e proprio atto d'amore verso il cinema classico ma è rappresentato con una forza disperata che ne modifica fortemente i contenuti morali, ne svuota le fondamenta e li riscrive cinicamente. A parte il personaggio di Sam il leone interpretato da Ben Jonhson, idealista e solitario (premio oscar per questo film), il resto dei personaggi ottimamente interpretati da uno stuolo di attori emergenti viene ritratto come afflitto da un torpore esistenziale dove al senso collettivo del vivere si è sostituito un individualismo sfrenato e casuale. Bogdanovich dunque costruisce un ritratto completo e impietoso di un periodo storico in una realtà ben circoscritta, e se anche contiene elementi nostalgici e malinconici, mette in luce debolezze, modelli di pensiero e di comportamento che nel futuro prossimo dilagheranno, generando danni sociali non più riparabili. Scelte stilistiche convincenti e ricostruzione ambientale a dir poco perfetta fanno de L'ultimo spettacolo un affresco toccante dalla narrazione asciutta e priva di scadimenti retorici dal primo all'ultimo minuto.
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