Regia di Elliot Silverstein vedi scheda film
Un uomo chiamato cavallo è un film che, su un duplice binario, incontra lo spirito del tempo e per questo, meriti spettacolari a parte, può dirsi riuscito. Da un lato si inserisce nel filone di riconsiderazione del rapporto tra l'uomo bianco e le popolazioni indigene delle Americhe, dove queste ultime si guadagnano un rispetto che nel cinema di Hollywood non sempre avevano ottenuto e, se da un lato si comincia a definire con l'appropriato termine di genocidio l'incontro tra gli invasori d'origine europea e i cosiddetti indiani, si scopre anche un interesse per così dire etnologico riguardo alla cultura di questo popolo. Per citare soltanto i titoli più famosi usciti proprio nel 1970, accanto al film di Silverstein bisogna mettere anche Il piccolo grande uomo di Penn e Soldato blu di Nelson.
Sull'altro binario, Un uomo chiamato cavallo incontra lo spirito del tempo mettendo in scena l'insoddisfazione del nobile inglese John Morgan (un azzeccato Richard Harris), il quale in patria avverte tutta l'inutilità del proprio ruolo e, dopo avere abbandonato il servizio militare nelle guardie reali, ha passato gli ultimi anni a cacciare fagiani nelle varie parti del mondo. L'inglese è, sostanzialmente, alla ricerca di sé stesso, della propria anima, che si è persa in un paese già in piena rivoluzione industriale e in preda alla frenesia della modernità. Solo dopo essere stato ridotto allo stato bestiale (viene ribattezzato Shunkawakan, cioè cavallo, e trattato come tale), Morgan ritrova la propria dignità di uomo e riconosce nei Sioux Mano Gialla dei suoi simili. La ricerca di sé stesso da parte del protagonista - che tuttavia non rinuncia ad aspirare al ritorno a casa - sarà portata alle estreme conseguenze in un evitabilissimo seguito (ormai diventato quasi un obbligo per i film di successo, soprattutto dopo la riuscita del Padrino parte seconda), mentre qui ci si ferma con il protagonista che riesce a coronare il proprio disegno di libertà.
Con qualche luogo comune di troppo (il bianco che diventa capo della tribù dei pellerossa e l'amore della sorella del capo) e qualche sequenza spettacolare rimasta nel mito (il celeberrimo rito del sole), Un uomo chiamato cavallo resta uno dei western "revisionisti" più riusciti degli anni settanta, in qualche modo anche anticipatore di Balla coi lupi, uscito più di vent'anni dopo.
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