Regia di Elliot Silverstein vedi scheda film
Nella stagione del western in cui venne rivalutato il ruolo dei pellerossa, con qualche concessione al manicheismo( ma di fronte a molte malefatte dei bianchi nei loro confronti, ci sarebbe da discutere notevolmente), furono prodotti lungometraggi che divennero dei classici in breve tempo: tre titoli per tutti, "Piccolo grande uomo", "Soldato blu" e "Un uomo chiamato cavallo". Il meno western dei tre è probabilmente quest'ultimo, con l'inglese Richard Harris nel ruolo del titolo, spiegato dal fatto che la tribù di Sioux che cattura il lord britannico mentre caccia inizialmente lo sbeffeggia trattandolo alla stregua di un equino. Il film ebbe tanto successo da generare due seguiti progressivamente sempre meno interessanti, ma nonostante un avvio non entusiasmante, "Un uomo chiamato cavallo" ha il merito non minimo di illustrare la crudezza delle regole di un villaggio indiano, sottolineandone sia la forza della comunità, ma pure la ferocia di certi rituali e di alcuni usi, come quella dell'abbandono totale delle anziane rimaste senza nessuno, condannate a morire di freddo e d'inedia. Richard Harris fornisce un'interpretazione molto fisica, ma di straordinaria adesione alla parte, con le connotazioni ora sanguigne, ora sfumate della sua bravura d'attore: non convince del tutto la regia di Silverstein, che si affida ora ad inserti documentaristici, ora a movimenti di macchina inconsulti, ma probabilmente l'obbiettivo era cercare di sperimentare delle tecniche di ripresa. Un buon film, con qualche ingenuità e qualche soluzione discutibile.
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