La metropoli come nuova frontiera, capace di sostituire nell’immaginario collettivo quella reale e mitica immortalata dai Western americani è un lascito che viene dal cinema degli anni settanta e in particolare dai polizieschi dei vari Siegel e Friedkin. In questi film tra le altre cose spiccava il trattamento riservato alla figura del poliziotto, passato dall'essere eroe senza macchia e senza paura a essere umano corruttibile e difettoso, per metodi e violenza equiparabile in tutto e per tutto a coloro a cui da la caccia. A quest’eredità si rifà senza mezze misure lo sceneggiatore Christian Gudegast passato dietro la mdp per raccontare il confronto tra due personaggi destinati a essere uno lo specchio dell’altro. Ne “La tana dei lupi” infatti è solo il distintivo della squadra speciale anticrimine a mettere nella schiera dei buoni Big Nick O’Brien, determinato a riportare in prigione la propria controparte, ovvero Ray Merriman, appena uscito dal carcere e pronto a organizzare il colpo del secolo, quello dopo il quale lui e i suoi uomini potranno cambiare vita.
All’adesione dei protagonisti con lecaratteristiche succitate se ne aggiunge un’altra che chiarisce il modello al quale si è ispirato il regista per la sua prima regia. La prima sequenza, di ambientazione metropolitana non si limita - come succede nella maggior parte dei cop movie - a mettere in scena una semplice sparatoria tra buoni e cattivi. Alla maniera del Mann di “The Heat - la sfida”, Gudegast filma lo scontro conun estensione temporale che va oltre la norma, facendo delle immagini non solo un intermezzo ludico volto a soddisfare le prerogative tipiche dell’action movie ma anche lo strumento per definire la sociologia di un’umanità che fa della violenza e del conflitto il modo di rapportarsi al mondo esterno.
E se ciò non bastasse, a certificare il modello che sta all’origine di “La tana dei lupi” valga come conferma la struttura narrativa adottata da Gudegast, il quale, una volta scoperte le sue carte e introdotti i due contendenti, ne prepara la resa dei conti con un montaggio parallelo in cui alla mossa dell’uno corrisponde sempre quella dell’altro. In tal modo il film diventa una sorta di partita a scacchi dove a salire in cattedra sono le caratterizzazione che gli attori danno dei personaggi, divisi dall’obiettivo finale ma simili nella determinazione e nelle azionimesse in atto per raggiungerli.
Di Mann, Guedegast non ha certo il talento ma neanche i soldi, per cui, se in certi passaggi le psicologie di Nick e Ray si manifestano più per stereotipi che in ragione di una reale coerenza motivazionale e, ancora, se la città di Los Angeles non riesce mai a entrare in dialettica con l’universo dei personaggi, è altrettanto vero che il film e i suoi personaggi si fanno portatori di una visceralità sgangherata ma genuina. Con qualche convenzionalità di troppo come quelle che enfatizzano la problematicitàdello sbirro impersonato da Gerard Butler (meglio di lui fa Pablo Schreiber alle prese con un cattivo silenzioso e letale), “Nella tana dei lupi” non rinuncia a trovare un senso al caos scatenato dalla belligeranza dei protagonisti e nel farlo ricorre aespedienti e argomentazioni che sarebbero piaciute molto al Bryan Singer de “I soliti sospetti”.
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