Regia di Valerio Mastandrea vedi scheda film
Dice che ride.
Scritto dallo stesso Valerio Mastandrea (qui alla sua opera prima nel lungometraggio, mentre già aveva co-sceneggiato “Padroni di Casa” e “la Profezia dell’Armadillo”, e rimarcabile rimane il suo vero esordio dietro alla MdP, il cortometraggio “TreVirgolaOttantaSette”: ed entrambi i lavori vicendevolmente possono considerarsi l'un per l'altro come un prologo e uno svolgimento, un antefatto e un'espansione) con l'aiuto del fino ad oggi non imprescindibile Enrico Audenino di “Maicol Jecson” e... “Maggie & Bianca Fashion Friends”), prodotto (con supporto MiBAC) da KimeraFilm e Rai Cinema e distribuito da 01 e Minerva, fotografato (ottime prospettive a camera fissa che al massimo il più delle volte compie piccoli movimenti orizzontali ad arco sul proprio asse, più un paio di carrelli a precedere e carrellate laterali) dall'anche lui esordiente Andrea Fastella [operatore alla macchina in “il Caimano” (addizionale), “Cesare Deve Morire” e... “i Cesaroni”], montato da Mauro Bonanni, scenografato da Marta Maffucci e musicato da Riccardo Sinigallia ed Emiliano di Meo.
Interpretato dalla tripartita presenza scenica costante di Chiara Martegiani (la sua - e per intenzione di scrittura, e per volontà regia - messa in scena della catartica ricerca della nemesi del titolo è palese, reiterata, al limite del ridicolo, ma mai esasperante o fuori posto, sincrono, luogo, tempo, e lucidamente reale: un “auto”ritratto sotto forma di tronie dei giorni nostri), Renato Carpentieri (in una prova che dicotomicamente dialoga con quella espressa in “la Tenerezza” di Gianni Amelio) e dal convincente esordiente Arturo Marchetti (spesso in campo in ottimo duetto col coetaneo, anche lui alla prima prova, Mattia Stramazzi), e dai comprimari Stefano Dionisi (è anche un film che vive di ingenuità alte e basse, e da questo punto di vista la prova dell'attore in questione n'è epitome precisa, alternando ciak perfetti ad altri meno), l'ottima "apparizione" mnemonico-interattiva di Lino Musella, la già ricordata più avanti Milena Vukotic, i bravissimi Walter Toschi e Giancarlo Porcacchia, un piccolo ruolo per Emanuel Bevilacqua (in quota/zona Claudio Caligari), una breve apparizione per Silvia Gallerano, e, tra le tante compars(at)e non accreditate, il grande Raffaele Vannoli.
Contrappuntato diegeticamente da Dirthy Three, Arthur Lee, Madjo, SparkleHorse, UltraVox, e, in glossante chiosa, Ivan Graziani, si spegne e agisce sul suo finire, “Ride” (fratellino di “la Stanza del Figlio”, cuginetto di “Caos Calmo” e amichetto di “After Life”), attraverso due “anti”-climax: uno straniante e molto bello pre-acme pioggiante dal soffitto, estremamente metaforico e contenente al suo interno un segreto, costituente la sua vera natura, subito rivelato (il portato allegorico del tropo che infine si rivela architettato tale sarà per l'appunto da lì a poco svelato, eliso, scardinato e disinnescato con ingannevole consapevolezza: si passa dal pensare che l'appartamento piangente potrebbe essere causa colposa della buñueliana Milena Vukotic, ma poi uno considera la probabile possibilità che il terzino sinistro, prima di chiudere a chiave la porta d'ingresso dietro di sé, abbia controllato per bene tutte le stanze della casa, con particolare attenzione alla trilogia dei lavori pubblici, acqua-luce-gas...), e un tanto canonico e codificato quanto sorprendente ed epifanico post-acme, un momento sospeso, un attimo protratto, che coincide con e costituisce il finale (realisticamente “fantasmatico”: da P.T.Anderson a I.Bergman, da P.Jackson a D.Lowery, da M.Night Shyamalan ad A.Weerasethakul: assonanze, non concordanze), un campo di battaglia in cui si scontrano due capacità, l'allestimento (“Alpeis”) dell'eterne lotta e simbiosi tra memoria e fantasia, verso un Dolce Domani. Abitato da chi resta.
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