Regia di Sydney Sibilia vedi scheda film
Torino Film Festival 35 – Festa Mobile.
Smetto quando voglio: Ad honorem è il terzo – e conclusivo – atto delle gesta dei laureati più popolari del recente cinema italiano, che dopo aver ideato una droga sintetica (Smetto quando voglio) e collaborato con la polizia per fermare la diffusione di una nuova sostanza illegale (Smetto quando voglio: Masterclass), si trovano di fronte a un pericolo imminente e a una conseguente nuova missione da portare a termine.
A parte la centralità di un’ulteriore escursione in un genere praticamente ignorato dal nostro cinema da tanti anni a questa parte qual è l’escape movie, il resto annaspa in una medietà che non va oltre alla promulgazione di una vivacità dai risultati sempre più estemporanei, con una discreta quantità di sorrisi, ma poche reali risate a crepapelle.
Pietro Zinni (Edoardo Leo) sa con assoluta certezza che i tempi sono ormai maturi per un’azione dinamitarda con l’utilizzo di gas nervino, un attacco che comporterebbe un ingente numero di vittime, ma ha due grossi problemi: nessuno gli vuole credere ed è pur sempre rinchiuso in un carcere.
Sfruttando la sua astuzia, dopo aver discusso con Murena (Neri Marcorè), riesce a raggruppare tutta la banda all’interno del carcere di Rebibbia, dal quale ha intenzione di evadere per poi dirigersi all’università “La Sapienza” e fermare il diabolico e vendicativo piano di Walter Mercurio (Luigi Lo Cascio).
Con Ad honorem, Sydney Sibilia continua il volonteroso processo di recupero di generi andati persi per strada dal nostro cinema e questa rimane l’unica buona notizia, in un atto finale che non rinnova la freschezza dell’esordio, difettando in brillantezza sia nel congegno generale, sia nella qualità dei singoli fraseggi comici, raramente davvero spumeggianti.
Pertanto, all’interno di uno svolgimento che fatica ad arrivare ai novanta minuti effettivi, il pezzo migliore è riscontrabile nella grande fuga della banda appena ricomposta, un’estensione dalla sommatoria non eccezionale, comunque sia una bella pensata espletata con vivacità, per quanto non esente da difetti di fabbricazione.
A prescindere, sempre meglio del prima e del dopo, che vedono rispettivamente una partenza al rallentatore e un atto finale inutilmente arzigogolato (senza trascurare una faticosa rievocazione del passato di Murena e Walter Mercurio).
Rimane comunque ancora valido – e anche avvalorato - il motivo di fondo, riguardante una condizione sociale che spinge verso l’illegalità, obbliga tante menti brillanti a fare tutt’altro rispetto a quelle che sarebbero le loro attitudini e incentiva una voglia di vendetta potenzialmente pericolosa, senza dimenticare qualche sprazzo sull’inefficienza italica (ad esempio, un secondino compiacente e un laboratorio privo della più banali misure di sicurezza).
Discorrendo più in generale, si respira una stanchezza trasversale, che tocca anche il cast: Edoardo Leo è troppo scolastico e meno credibile che in passato, Luigi Lo Cascio non può certo imprimere un metodo drammaturgico troppo solenne e Neri Marcorè così conciato funziona anche stando in silenzio, mentre i componenti della scapestrata banda rischiano di finire nell’anonimato, a parte un ridondante Libero De Rienzo e il più simpatico di tutti, ossia Stefano Fresi.
In definitiva, nel giro di pochi anni e soli tre episodi, il progetto di Sydney Sibilia si ritrova con le polveri bagnate, minato da una consistenza flebile e con un impalcatura danneggiata da crepe sparpagliate (talvolta necessarie per sbloccare l’avanzamento del plot), un passo di addio che sfocia in un saluto finale oltremodo spento, evitando un’incongrua versione in pompa magna, ma anche talmente remissivo da sembrare più viziato da un ulteriore principio di debolezza piuttosto che da una volontà crepuscolare.
Un commiato di cui non rimarrà granché, allegro ma non troppo (e forse nemmeno abbastanza).
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