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Fabrizio De Andrè. Principe libero

Regia di Luca Facchini vedi scheda film

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La recensione su Fabrizio De Andrè. Principe libero

di MarioC
5 stelle

Reductio ad unum. Questo è il destino, la ineffabile condanna, la funzione di una fiction. Levigare le complessità, squadernare il visibile, lasciare ciò che non si vede in un angolo di possibile immaginazione, trattare l’indicibile come concetto di dizione difficile quando non impossibile. Accade anche e soprattutto con le biografie, e con le biografie di personaggi che hanno inciso sull’immaginario collettivo, fino a farsi mito. Ci provarono anche con Gesù di Nazareth (pura follia che si fece retorica, nel trasformare il figlio di Dio in un impasto di iconoclastia e vaniloquio), tentarono con Ligabue (il pittore), trasformandolo in un nipotino scemo di Van Gogh, nonostante l’interpretazione di gran classe che ne diede Flavio Bucci. Ora abbiamo anche Fabrizio De André, una specie di Messia delle sette note, il cantore degli ultimi elevati a poesia, lo scrittore di racconti brevi in musica che abbracciavano la verità e si avvicinavano all’infinito. Operazione il cui destino di fallimento non sta nella mancanza di buona fede, quanto nella parzialità (ovvia, necessaria: 3 ore di pellicola per comprimere una vita di intensità pensierosa e perenne movimento intellettuale), nella reductio ad unum di cui si diceva. Il De André principe libero incorniciato (costretto) nel piccolo schermo, ed avvolto nelle risapute nuvole (Le nuvole: che capolavoro, diciamo en passant) di fumo di sigaretta e nei pericolosi effluvi di quell’alcol che assolveva alla funzione di stimolo all’atto creativo (un po’ come l’assenzio per Rimbaud), è dunque un De André dimezzato, un Fabrizio che motteggia, canta, ama, soffre, tradisce, attraversa le fiamme della segregazione forzata, rende al padre una promessa esiziale, non muore. E questo va bene, perché la poesia non può morire.     

 

Luca Marinelli

Fabrizio De Andrè. Principe libero (2018): Luca Marinelli

  

La fiction si fregia di una pregevole intuizione: rinunciare alle pomposità della musica composta all’uopo e dipanare al contrario le canzoni del protagonista in funzione diegetica, facendone sottolineatura di vita (di quella vita che passa veloce in immagini che volteggiano e si fanno bignami) e contrappunto emozionale. Cosa capace di scogliere i fans in odore di pregiudizio in un girotondo di ricordi e sensazioni che, come d’incanto, crea indubbia empatia. Facile pensare al ricatto retorico quando, durante la prigionia in Gallura ed appena prima della liberazione, parte Hotel Supramonte. Ma non c’è disonestà. È andata così: De André compose quel capolavoro nel ricordo dei tristi giorni cui l’amore (l’idea dell’amore in funzione di unguento e di terapia) dava forza e stabilità. E poi c’è l’interpretazione di Luca Marinelli, di ottima mimesi e notevole resa, soprattutto fisica e vocale. Le polemiche sulla dizione (troppo romanesca) dell’attore hanno una giusta ragione d’essere soltanto nella misura in cui, nelle scene di ambientazione genovese, tutti i personaggi si esprimono con chiara inflessione ligure laddove De André parla un anodino italiano che non rende giustizia ai suoi natali (vogliamo parlare di Creuza de ma, forse il punto più alto della sua carriera, che la fiction sfiora, vellica, omaggia con rapida fuga e poi confina nel dimenticatoio imposto dal minutaggio che corre?). E questa è una innegabile ingenuità.

Ce ne sono altre, naturalmente. Un certo sbilanciamento, soprattutto nella seconda parte, a favore delle traversie sentimentali del cantante. Dazio da pagare alla audience, tassa che la riscrittura di una vita (di ogni vita) fa pagare ai duri e puri. Non molte le scene madri (forse quella dell’addio alle amate bottiglie, ma in sottofondo c’è Il suonatore Jones ed è un gran bel sentire) e, tuttavia, una malmostosa sensazione di zucchero a velo spalmato su un carattere di rara integrità, di inusuale coerenza. I personaggi di contorno (ci sono davvero tutti, da Villaggio a Tenco, da Fernanda Pivano a, absit iniuria verbis, Cristiano Malgioglio) che sembrano, ad eccezione forse del comico amico di una vita, figurine innecessarie, satelliti che contornano il genio mai sfiorandolo, mai interagendo realmente con la sua complessità, la sua peculiarità. E ci sono le omissioni, soprattutto musicali (ma sono quelle più gravi). Detto di Creuza, dalla ricostruzione scompare totalmente Anime salve, l’ultimo fantastico colpo d’ala, rievocato soltanto, in curioso flashback/flashforward e mediante Disamistade, durante la prigionia. Manca l’inno pacifista di La guerra di Piero, c’è solo un velocissimo accenno a Via del Campo (dove molte scene giovanili sono al contrario, e naturalmente, ambientate). Per finire, manca la cultura: quella che innervava il pensiero, la musica, la parola di Fabrizio, crediamo anche quella quotidiana, spiccia, volatile. Mentre non mancano mai sigarette, bicchiere e bottiglia, i libri sono confinati ad una parata di testi sparsi sul letto, a brevi appunti su fogli quadrettati, a penne che si muovono incerte. Drammaturgia elusiva, cedevolezza al business che antepone un bacio ed una parola d’amore di facile ed immediata presa a quell’esistenzialismo anche sofferto che, si accettano scommesse, percorse la vita di De André e ne prese le misure come una seconda pelle.  

 

Luca Marinelli, Valentina Bellè

Fabrizio De Andrè. Principe libero (2018): Luca Marinelli, Valentina Bellè

 

Tirando le fila, un’operazione non del tutto fallace, non del tutto fallita, su cui è lecito è giusto abbandonare o sospendere ogni snobismo preventivo. Nelle intenzioni un atto d’amore (anche perché fortemente voluta e caldeggiata da Dori Ghezzi), nella resa finale un volo d’uccello su una vita meravigliosa e complicata, un volo che non sfiora mai vette di totale bellezza ma si accontenta di riassumere, sfoltire, semplificare (reductio ad unum appunto, e ancora). Con una scena finale di pudica ed onirica grazia: i personaggi/attori della fiction seduti in teatro, mentre scorrono le immagini del vero Fabrizio, imbolsito, malato, durante l’ultima splendida tournée.

 

P.S. Questa è la recensione di un innamorato. E gli innamorati sono ciechi, non hanno occhi che per l’oggetto del loro amore. Perdonategli ripetizioni, confusioni, salti logici. L’innamorato di De André non può che essere confuso di fronte a qualcosa che, in fondo, pretende di raccontarglielo. Allora, finale scatto di gelosia ed orgoglio: per comprendere Fabrizio, per amarlo, non occorrono immagini artefatte. Non servono citazioni di Stirner e dell’anarchia buttate lì, tra una crisi coniugale e l’ennesima bevuta con cicca d’ordinanza. È sufficiente infilare una cuffia e ripassare la sua discografia. Nel silenzio rotto solo dalle note e dal timbro di quella voce irreplicabile le immagini si comporranno da sè.

È quello che sto facendo, mentre scrivo. 

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