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Manicomio

Regia di Mark Robson vedi scheda film

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La recensione su Manicomio

di OGM
8 stelle

A partire dal 1773 vennero varate, nel Regno Unito, alcune importanti riforme del sistema psichiatrico. Questo film testimonia la situazione precedente a quell’importante passo legislativo; tuttavia, è, suo modo, il manifesto di un altro  storico cambiamento; è, infatti, il promotore di quella che, all’interno della settima arte, si potrebbe considerare una riforma della follia. La pazzia viene spogliata della sua spettacolarità, comica, drammatica od horror – quella raffigurata nel quadro di William Hogarth a cui il film si ispira - per essere presentata, semplicemente, come una comune condizione umana, resa eccezionale e temibile solo dall’internamento in manicomio. Il matto cessa, in quest’opera, di essere un personaggio cinematografico, per diventare quello che, nei fatti, è per il mondo esterno: un essere invisibile, un’ombra relegata in un serraglio proibito, uno spettro che non ha più nulla da mostrare di sé perché è stato crudelmente privato di tutto (la dignità sociale, la memoria, la luce dello sguardo). La prospettiva, in questo film,  si trasferisce dal lato opposto di quel confine impenetrabile, tra la gente cosiddetta normale, che, per contro, ha tutti i mezzi materiali per dare sfogo alle più svariate perversioni. L’aristocratico Lord Mortimer, il direttore del manicomio George Sims e, in un certo senso, anche il muratore quacchero Hannay sono vittime delle loro manie, dettate dall’attaccamento al denaro, dalla sete di potere e dall’integralismo religioso. Irragionevoli sono i principi secondo cui operano, contorti i complotti che architettano, ottusi gli atteggiamenti che assumono. In mezzo a loro, a rappresentare la naturalezza, che è sempre trasversale alle classificazioni ufficiali, si muove l’agile figura della giovane Nell Bowen, che agisce sempre e solo secondo le conseguenze logicamente tratte dalle circostanze. Non è forse un caso se questo ruolo viene affidato al personaggio di un’attrice di teatro, una donna chiamata, per professione, ad amministrare con la giusta lucidità una vita costantemente divisa tra la realtà e la illusione, tra la spontaneità e la recitazione. Nell incarna la coscienza libera e vigile, che si sottrae agli inquadramenti normativi per vivere un’esistenza autonoma, costruita passo dopo passo lungo il cammino, secondo le indicazioni fornite di volta in volta dagli eventi: un  percorso che ammette errori, distrazioni e ripensamenti, perché cresce mano a mano che la comprensione migliora, e la conoscenza si espande.  Bedlam  è un film destinato a deludere chiunque vi si accosti col desiderio di vedere, di piangere, di ridere, di provare sorpresa o emozione: su di esso grava infatti, una cupa nube di reticenza,  buia ed ermetica come dovevano essere, all’epoca, le celle del Bethlem Royal Hospital. Mark Robson entra in un ambiente chiuso e soffocante, in cui l’aria è ferma, imprigionata nella bonaccia dell’oscurantismo, per scattarvi una fotografia sfocata e povera di contrasto: l’istantanea di un microcosmo velato dal silenzio e dal pregiudizio, rubata appena un attimo prima che, in quella confusa penombra, cominciasse a farsi strada un po’di luce.

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