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Manicomio

Regia di Mark Robson vedi scheda film

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La recensione su Manicomio

di Dalton
10 stelle

Questo è il primo film che ho visto dopo un mese d’astinenza forzata ed è la prima recensione che scrivo dopo ancor più tempo. Per il compimento di tale miracolo ringrazio l’utente omonimo a tale pellicola. Un capolavoro semisconosciuto per labirintiche ragioni. L’obiettivo aspettato fu ottenere l’orrore negli spettatori dell’epoca spostando l’attenzione dai castelli infestati dal tipico mostro maledetto per ambientarlo in un nosocomio (che conservò comunque le fattezze di un’aristocratica, circoscritta roccaforte) ove la follia veniva generata dalla mostruosità dell’homo sapiens. Il tutto col consueto sfondo di una splendida fotografia … d’una provincia un po’ borghese, un po’ proletaria ma sempre timorosa che tali maledizioni potessero fuggire da tali fortezze ed infestare la popolazione. Il modello d’ispirazione provenne dal cinema espressionista tedesco, IL GABINETTO DEL DOTTOR CALIGARI, ove l’ambizione fu insinuare dubbi su quel contesto politico-sociale. Non a caso il protagonista – un eccellente Boris Karloff, che per una volta non indossa una maschera ma si limita ad un’esibita e saltuaria parrucca - ci regala un’arringa in omaggio a quella di Peter Lorre nel langhiano “MOSTRO DI DUSSELDORF”. Il progetto attizzò la colonna portante della RKO, Val Lewton. Costui poté farsi forte dell’inaudito successo ottenuto insieme al regista Jacques Tourneur (da lui lanciato, ma se è per questo Lewton lanciò anche Robert Wise) con IL BACIO DELLA PANTERA, che causò a tale produttore l’etichetta di demiurgico pescecane morto precocemente. Etichetta ingrata: fu proprio da tale “MANICOMIO” (fortunatamente, come nel caso de LE CATENE DELLA COLPA - sempre della coppia Lewton/Tourneur - un titolo italiano azzeccato) che furono piantate le basi per molto cinema liberal nei decenni seguenti: nel ministro quacchero, deux-ex-machina del plot, s’intravede la morale liberale e compassionevole del Gregory Peck de IL BUIO OLTRE LA SIEPE, pellicola pionieristica sugli ideali democratici hollywoodiani, lontani oramai dalle titubanze ideologiche “caligariane”. Lewton fu abitudinario nel lavorare con budget leggermente ridotti: ciò ispirerà la politica artistico-aziendale di Edgar G. Ulmer, della Hammer inglese e, soprattutto della Factory di Roger Corman (che annovera questo film tra quelli che lo hanno maggiormente ispirato, omaggiandolo spesso nelle sue opere ). Col tramontare dell(e maschere) horror delle major e prima dell’avvento dei maestri del thriller, Lewton fu affettuosamente eletto dal pubblico alla stregua di “trashofilo”, nomea che recentemente ha travolto illustri registi/produttori del calibro di Tarantino, anche se il cinema indipendente contemporaneo punta più sulla libertà della forma artistica che sulla divulgazione del messaggio sociale. (Cfr.: il semi-analogo THE JACKET, recentemente prodotto da Clooney & Soderbergh, altro duo di mentori della scuola del Sundance Festival). Dopo averlo sperimentato con buoni risultati nel precedente LA SETTIMA VITTIMA, Lewton scelse per la regia Mark Robson, discreto artigiano dal piglio velleitario (grazie a lui vedranno luce nei decenni seguenti pellicole di grande impatto al botteghino) quanto patinato: a lui si devono le immagini di raccordo tratte dalle tavole di William Hoghart. La “razionale” classe nobiliare che regnava tale clinica psichiatrica - al punto di ridurla ad un circo di ludibri – veniva descritta con un tocco di humour non-sense ispirato a DUCK SOUP ed HELLZAPOPPIN’. Molti critici si sono sbizzarriti a legger tra le righe degli sviluppi narrativi una lettura politica anti-utopica e a citare filosofi su tale linea d’onda (Kafka, Marat, Rosseau, ect…). A mio modesto avviso, scorgendo nei gironi infernali dei sotterranei del (realmente esistito) “Bethlem Royal Hospital”, con l’inquietante e pietosa presenza dei freaks d’origine browninghiana, viene a mente la morale de il Dostoevskij dei "Dèmoni" e di "Delitto e castigo": ragion per cui è facile immaginare che il Kurosawa si sia ispirato a questo exploit dantesco per il suo quartiere dei tossicodipendenti in ANATOMIA DI UN RAPIMENTO. La suspence regge ancora oggi; il messaggio (“dalla pazzia si guarisce con la libertà”) fece storcere il naso all’ascendente morale perbenista di Hoover e McCarthy: per poter mettere mani all’anticonformista sceneggiatura ed aggirare le inimicizie maccartiste, il produttore dovette presentarsi tra gli autori sotto pseudonimo. Ragion per cui non ottenne il successo previsto e le platee si indirizzarono più verso i coevi IO TI SALVERO’ e LA FOSSA DEI SERPENTI, altrettanto crudi e visionari ma almeno più rassicuranti riguardo i trattamenti di tale istituzione. E non sarà la prima volta che un film ambientato in una clinica psichiatrica vivrà traversie, vedi TITICUT FOLLIES. Se poi Lewton avesse scelto un regista meno plasmabile come James Whale o per protagonista una Kathrine Hepburn al posto di una pur brava Anna Lee, critici e cinefili se lo sarebbero conteso nelle loro cineteche dei cult preferiti. In realtà, da IL CORRIDOIO DELLA PAURA a QUALCUNO VOLO’ SUL NIDO DEL CUCULO, tutti gli debbono qualcosa. Val Lewton morì 5 anni dopo BEDLAM. Il film venne riscoperto negli anni ’60 in pieno periodo di controcultura (di cui il già citato Corman fu uno dei maggiori forieri), un matto tutto verniciato d’oro ispirò Ian Fleming per l’omcidio di una bond-girl nel romanzo “Goldfinger” ed ottenne un’inaspettata consacrazione negli anni ’70, quando Mel Brooks lo utilizzò come film di supporto nelle premiere statunitensi del suo ALTA TENSIONE. Diffidare da omonimi z-movies.

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