Regia di Juan Antonio Bayona vedi scheda film
Se paragonassi "Jurassic World - Il regno distrutto" ad una manifestazione ciclistica a tappe direi che il "giro" si sia, virtualmente, concluso con le emozioni dispensate dalla cronoprologo. Il film preistorico girato da Juan Antonio Bayona si conclude, in termini di adrenalina, con il tradizionale incipit che si concretizza nel recupero di un reperto appartenente allo scheletro dell'indominus rex, la specie creata dal dottor Henry Wu per il "Jurassic World". Vincitore della corsa contro il tempo, e vincitore della competizione a tappe, è la natura che prevale sempre su chi la vuole imbrigliare e sottomettere al proprio tornaconto. Il mosasauro sfugge, infatti, al controllo e scappa dalla sua gabbia, libero e sazio, lasciando l'uomo atterrito dalla potenza della natura. Consumati gli orrori della missione introduttiva il resto del film si produce in una serie di tappe di avvicinamento al traguardo che lasciano scampoli di gloria agli altri protagonisti senza modificare il risultato ottenuto in apertura di corsa. La maglia rosa rimane appiccicata al medesimo ciclista, dall'inizio alla fine, facilitato nel suo correre in difesa da una serie di tracciati piatti e poco impegnativi.
Il regista spagnolo, direttore delle corsa, ha provato a rendere spettacolare il giro. Ha convocato i protagonisti delle precedenti edizioni (Chris Pratt, Bryce Dallas Howard), ha richiamato a sé l'eroe di glorie passate (Jeff Goldblum), ha ricreato l'atmosfera delle grandi sfide lungo il percorso. Tuttavia, poco ha potuto per rendere credibile il lavoro del tracciatore (Colin Trevorrow) che ha omesso gli impegnativi pendii della montagna per attraversare strade banali e dissestate.
Colin Trevorrow, dopo il successo mondiale di "Jurassic World" è sceso dalla sella per occuparsi, prevalentemente, della sceneggiatura. Il risultato è stato, secondo chi scrive, davvero deprimente. Owen Grady rimane il personaggio più interessante mentre quello interpretato da Bryce Dallas Howard il più improbabile nel suo repentino cambio di rotta da arrampicatrice sociale ad attivista per il rispetto e la sopravvivenza dei dinosauri. Non è tanto la bislacca trasformazione di Dearing ad avermi infastidito bensì la spicciola lezioncina impartita da Trevorrow che attraverso la figura ingenua di una bambina mette a tacere gli avvertimenti, tutt'altro che infondati, del dottor Malcolm, per assecondare posizioni animaliste estreme.
Michael Crichton aveva puntato il dito contro l'arroganza umana. L'uomo aveva ricreato la vita dei giganti fossili annullando il naturale progredire dell'evoluzione, mettendo a rischio, di conseguenza, l'incolumità della propria specie. Il pericolo insito nell'ambizione di sostituirsi a Dio e cogliere, tra provette e microscopi, il frutto della conoscenza aveva causato la ribellione della natura. Nel suo romanzo lo scrittore americano era stato chiaro e nella finzione filmica il matematico Ian Malcolm aveva dato voce, incessantemente, al pensiero del suo autore. Trevorrow, invece, tira fuori un altro Hammond dal cilindro. Altrettanto ricco e viziato. Un novello dottor Frankenstein in carrozzina rinfresca il mito della Creatura con una bambina forgiata in laboratorio. Come un dinosauro, per l'appunto. La lezione di Crichton, appresa dal franchise molti anni prima, viene dimenticata da Trevorrow che allo sbaglio dell'uomo, stigmatizzato da Malcolm, ne giustifica uno ancor più grave. All'errore di riprodurre in laboratorio esseri scomparsi durante il percorso evolutivo del pianeta, errore necessario ai fini narrativi e da cui naturalmente trae origine l'analisi sociologica e scientifica dello stesso Crichton, si somma l'acritica difesa della vita, quella artificiosamente ricreata in laboratorio, che costituisce un lapalissiano pericolo per l'umanità intera. Trevorrow dimentica che oggetto della salvaguardia non è il regno animale, quello che conosciamo e che spartisce il pianeta in situazione di svantaggio con noi, bensì un insieme di esseri (viventi) a cui la natura stessa ha voltato le spalle milioni di anni orsono. Non si tratta dunque di proteggere dall'estinzione animali a rischio che meritano la salvaguardia del proprio ambiente. E non si tratta nemmeno di "risuscitare" qualche specie da poco perduta come il "dodo" e la "tigre della Tasmania" a causa della pressione antropica esercitata sul loro habitat. Colin Trevorrow pedala pericolosamente sul ciglio del burrone e alla fine opta per mantenere in vita famelici carnivori che lasciati liberi marcano un territorio condiviso con l'essere umano, debole ed impreparato a confrontarsi con pericolosi esseri preistorici, per giunta manipolati geneticamente. La cosa più orribile è mettere nelle mani di una bambina sconvolta dalla scoperta della propria genesi, una responsabilità tanto grande facendo passare un certo tipo di messaggio (la salvaguardia dell'ambiente naturale) utilizzando mezzi ovviamente inappropriati.
Nonostante un percorso (narrativo) tecnicamente di scarso valore, Juan Antonio Bayona ha conferito all'evento tutta la sapienza del proprio mestiere. Nonostante una serie di tappe piuttosto prevedibili ed un vincitore annunciato ha distribuito spettacolo. Bayona si è espirato all'originale riproducendo le vertigini emotive dei claustrofobici set di "Jurassic Park" ma il risultato è rimasto, comunque, viziato dal tracciato del suo braccio destro. La natura ha dunque vinto. T-Rex e velociraptor possono vagare indisturbati per la California del Nord grazie all'interferenza dell'uomo che ancora una volta mostra di non saper controllare il proprio ego. La corsa l'ha vinta il lucertolone "Blue" ma, visto l'intervento dell'uomo, la vittoria puzza un poco di doping.
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