Regia di Casey Affleck vedi scheda film
Festa del Cinema di Roma 2019 – Alice nella città.
Un padre sarebbe disposto a correre qualsiasi sacrificio per proteggere la sua prole. Anche al cospetto di condizioni scoraggianti, anche a costo di non poter trasmettere l’affetto nelle sue forme comuni. D’altronde, per mantenere alta la soglia dell’attenzione, nessun dettaglio deve essere trascurato, nemmeno quello più banale, quello che potrebbe regalare un sorriso, un attimo di riconciliatorio svago.
In Light of my life non c’è spazio per nessuna smanceria, esattamente come la regia di Casey Affleck non ammette alcuna deroga a uno svolgimento integerrimo.
A seguito di un’epidemia che ha sterminato la popolazione femminile, un padre (Casey Affleck) e sua figlia, di nome Rag (Anna Pniowsky), vivono nascosti nei boschi, lontano da occhi indiscreti.
L’uomo prende ogni tipo di precauzione pensabile per non incappare in un qualsiasi pericolo e tutelare sua figlia, che in presenza di altri uomini diventerebbe un bersaglio facile.
Durante un lungo viaggio, resosi indispensabile per raggiungere un rifugio sicuro, s’imbattono in Tom (Tom Bower) e abbassano la guardia.
Questo incontro del tutto fortuito avrà delle pesanti ripercussioni.
Light of my life rappresenta l’esordio da regista di finzione – in precedenza aveva diretto il documentario Joaquin Phoenix: Io sono qui! - di Casey Affleck (premio Oscar come miglior attore protagonista in Manchester by the sea), un altro esempio di quanto sia macroscopica la distanza che lo separa dal fratello maggiore, Ben Affleck.
Infatti, quest’opera prima – una specie di versione alternativa di The road - è minimalista, con un numero ristretto d’idee, però raffigurate con cristallina caparbietà e senza sfarfallii.
Sulla superficie siamo in pieno survival movie, con uno scenario post apocalittico, tra luoghi diroccati (una biblioteca che non interessa più a nessuno) e una natura selvatica, contrastata dai flashback che aggiungono il calore del focolare domestico, frammenti di un tempo andato (qui compare Elizabeth Moss, ormai un certificato d’autore).
Invece il nucleo è occupato dal prioritario rapporto tra padre e figlia, con le esigenze di chi deve garantire una protezione, rassicurare nei momenti angoscianti ed educare affiancate alla curiosità di chi vorrebbe semplicemente crescere e conoscere, chi vedendo un abito femminile non può che provare un irrefrenabile impulso di indossarlo.
La spaziatura collassa su questo legame, gli istinti emergono con prepotenza, in una lotta infinita che trasmette un amore incontaminato e indurito dalle circostanze, espresso mediante una resilienza senza pace, fatta di fughe continue, della saggezza applicata alla pratica, in un crescendo ansiogeno.
Un mondo a metà - senza donne, non può che essere definito così - con la cattiveria in cabina di comando, un tempo senza legge (una casa è di chi l’ha trovata libera) né pietà, nel quale essere feroci è un requisito fondamentale per non soccombere.
Guardingo e tenace.
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