Regia di David Lynch vedi scheda film
"Wild at Heart" è sempre stato uno dei film più divisivi di David Lynch: alla sua uscita nel 1990 fu accolto con entusiasmo dalla giuria del festival di Cannes, presieduta da Bernardo Bertolucci, che gli assegnò la Palma d'oro con entusiasmo, ma la reazione di molti critici, anche e soprattutto americani, fu tiepida e in certi casi apertamente negativa. Nella recente riscoperta dell'opera lynchiana successiva alla dipartita del Maestro, il film è stato ripreso con molto interesse, ma a mio parere non si posiziona alle primissime posizioni, e venendo dopo un capolavoro come "Velluto blu" fu in qualche modo un'opera di compromesso, eccessiva e indisciplinata ma che reca ugualmente il segno del Genio.
Ovviamente non è un film di trama, ma si può dire in estrema sintesi che è il viaggio di una coppia, Sailor e Lula, per liberarsi dalle grinfie della madre di lei, matriarca perfida che era stata rifiutata da Sailor e che li fa inseguire da due killer attraverso le tappe di un percorso da Road movie che è anche un viaggio nel Cuore selvaggio di un'America malata, disturbata ma allo stesso tempo impregnata del romanticismo di "Love me tender" di Elvis e delle folgorazioni del Mago di Oz. "Cuore selvaggio" è un film su cui non è facile abbozzare un giudizio "definitivo", che non sia soggetto a cambiamenti con possibili revisioni della pellicola. Secondo me ha ragione Mereghetti, grande fan di Lynch ma un po' meno del film, quando lo definisce "un gigantesco falò del kitsch": si tratta di un'opera di visionarietà in un certo senso estrema, con una parte iniziale insolitamente violenta, una contaminazione stilistica fra melodramma grottesco, Noir e Pulp spinta oltre i confini normali di un prodotto hollywoodiano, per quanto di nicchia, dei primi anni 90, una ricerca per certi versi accanita della sgradevolezza e di personaggi amorali e turpi. Rispetto alla magistrale sintesi della sua poetica operata in "Blue Velvet" qui siamo certamente un pochino indietro, con un Lynch che si diverte a fare esplodere le convenzioni e a sovvertire le aspettative di un pubblico che all'epoca decretò un successo piuttosto tiepido, con un incasso di poco superiore alla cifra del budget.
Ci sono probabilmente troppi personaggi di contorno, alcune parentesi non necessarie nel plot, troppi sfoggi di violenza sopra le righe; allo stesso tempo la regia orchestra con indubbia sapienza il crescendo allucinato e da incubo della prima parte e poi la seconda più malinconica, con passaggi di un iperrealismo sontuoso soprattutto a livello figurativo. Nicolas Cage è diretto con molta attenzione e fornisce qui una delle sue migliori performance insieme a una Laura Dern già icona indiscussa dell'immaginario lynchiano, ma la migliore è Diane Ladd, madre della Dern che guadagnò una meritata nomination all'Oscar; buone le partecipazioni di Willem Dafoe e Isabella Rossellini come Perdita Durango.
Voto 8/10
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