Regia di Karen Moncrieff vedi scheda film
Blumhouse tenta la via di un horror scritto e diretto al femminile. Ne esce uno straziante strappalacrime, che non fa ovviamente paura. Un dramma dai contorni rassicuranti sul valore della famiglia. Noiosissimo tra l'altro.
Mark (Lee Pace), dopo avere perso il figlio Jacob di soli cinque anni, viene abbandonato dalla moglie Elizabeth (Carrie Coon). Affermato avvocato lui, celebre scrittrice lei, dopo sette anni si ritrovano. La casa in cui hanno vissuto è stata lasciata in malo modo dagli inquilini e Mark intende venderla, recuperando dal sottotetto oggetti del matrimonio, e soprattutto di Jacob. Durante le operazioni di pulizia, Mark vede il bambino: non si tratta di una allucinazione perché anche Elizabeth avrà occasione di rivedere il piccolo Jacob.
"Voglio le cose come erano prima. Voglio voi come eravate prima. Tenetevi per mano." (Lo spettro di Jacob ai genitori divorziati)
Il logo Blumhouse prima degli open credits già invoglia a sospendere la visione in quanto sinonimo di terrore, ma non perché i film (solitamente horror) facciano paura. Al contrario: spesso sono un ottimo surrogato ai sonniferi, quindi il terrore si manifesta... al solo pensiero di subire l'intero film. Qui Jason Blum ha voluto mettere alla prova una donna, Karen Moncrieff, solitamente un'attrice che ha però più volte tentato la via della regia. Anche in sceneggiatura, Blum lascia via libero al sesso debole (si fa per dire, che debole e in verità quello maschile). Così dal terrore, che proprio non gli riesce di fare, Blum passa a far piangere: in senso concreto. Se si è un minimo sensibili di cuore, occorre un intero pacchetto di fazzoletti per passare indenni -ossia senza affogare- la visione di questo ruffianissimo -e straziante- The keeping hours.
Prodotto per spettatori reazionari, con predicozzo (buonista e sdolcinato) sull'integrità morale associata a una "famiglia tradizionale". Cast di ottimi interpreti, sprecati in un film/soporifero che si protrae verso un finale strappalacrime decisamente anacronistico. Pare quasi un aggiornamento dei film "tragici" molto in voga negli Anni '40 e '50. Oltre alla prevedibilità di un plot scontato come e più delle tasse, la regia si appiattisce in un anonimo taglio televisivo, reso monotono dall'assenza di effetti speciali e da una colonna sonora anch'essa inutile e conciliante un sonno profondo. Insomma ci troviamo di fronte all'ennesima fregatura targata Blumhouse, la peggior casa di produzione (in sostenuta alta attività) attualmente all'opera in campo horror.
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