Regia di Alexander Kluge, Volker Schlöndorff, Rainer Werner Fassbinder, Alf Brustellin, Bernhard Sinkel, Katja Rupé, Hans Peter Cloos, Edgar Reitz, Maximiliane Mainka, Peter Schubert vedi scheda film
In tempi di intenso terrorismo, e in particolare nei fatti risalenti all’autunno del 1977, i tedeschi si interrogarono acutamente tramite la messa in scena su celluloide di una verità contemporanea. Il Nuovo Cinema Tedesco non poteva rimanere indifferente di fronte al rapimento e all’assassinio dell’imprenditore Schleyer, al dirottamento aereo di un mezzo della Lufthansa con la conseguente “intromissione” delle unità qualificate per la liberazione degli ostaggi, alla morte in carcere dei terroristi della banda Baader Meinhof.
Nata da una proposta di Theo Hinz, uno dei responsabili della Filmverlag der Autoren, “Germania in autunno” è una pellicola collettiva, anche se l’impellenza del tema avrebbe successivamente generato film quali “La terza generazione” dello stesso Fassbinder e “Anni di piombo” di Margarethe von Trotta.
Presentato al Festival di Berlino il 3 marzo del 1978, il film fece di tutto per far capire l’uniformità dei propositi degli autori che vi parteciparono. Fu un’occasione per dare risalto alla mancanza del dibattito nella Germania di quel periodo e al diritto a una discussione civile.
E’ più appropriato il silenzio o dire quello che ci passa per la testa? Fassbinder se lo domanda, è inquieto, disperato, non capisce i motivi per i quali la Germania si sia potuta ridurre così, vittima e succube di atti eversivi. Credere in coloro ai quali si è dato il proprio voto è possibile? Rappresentano davvero una democrazia? Le stesse organizzazioni statali (che negarono il loro appoggio finanziario al film) vennero messe in discussione.
Molto efficace, da questo punto di vista, la conversazione che Fassbinder ha con un cronista all’inizio del film. A lui dichiara che “il matrimonio è una forma di convivenza artificiosa, non importa di quanto se ne ha bisogno”. Un’istituzione così radicata viene messa bellamente in discussione. Un sano invito a guardarsi dentro, a essere più critici anche verso se’ stessi e a credere nei diritti liberali individuali. Non c’è niente di sovversivo in tutto questo, solo la volontà di condividere, comunicare e capire.
Il regista tedesco decise di girare il proprio episodio (il primo in ordine cronologico rispetto a quello di tutti gli altri) tra le sue mura domestiche. Questa volta non abbiamo a che fare con una regia particolarmente chiarificatrice, non ce n’è bisogno. La sola ambientazione scelta equivale a darci un senso di claustrofobia: nessuna carrellata, nessuna panoramica, solo una macchina fissa e riprese spesso distanziate.
La politica entra nel privato di Fassbinder, lui litiga col suo compagno (il vero convivente Armin Meier) che ha una veduta troppo estremistica sulle soluzioni da prendere, poi alterna le sequenze di una discussione intrapresa con la madre conformista, filomonarchica (?) e moderata (se così si può chiamare una donna favorevole alla pena di morte e all’uccisione dei terroristi senza propositi di processi penali o spazi lasciati al contraddittorio).
L’episodio coglie nel segno soprattutto perché rappresenta uno spasmodico, irrefrenabile tentativo di spiegare il momento politico attraverso l’uso di sprazzi di vita privata; la nudità e l’assunzione di droghe sono le altre presenze “sporche” del passaggio fassbinderiano. L’esposizione dello stesso regista che si mostra senza veli e vizioso è autentica e risoluta.
In tutto il film i punti di vista sull’ “oggetto terrorismo” sono molteplici; basti pensare allo stile decisamente discorde che vede l’episodio di Alexander Kluge (sui documenti dell’antinazismo accompagnati dall’inno tedesco e dal Requiem di Mozart) seguire quello di Fassbinder.
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