Regia di Luca Miniero vedi scheda film
Catapultato da chissà dove, ad oltre 70 anni dalla sua scomparsa, la figura di Benito Mussolini si materializza dall’alto dei cieli fino a piombare maldestramente nella nostra capitale ormai multietnica, quella dei quartieri più popolari. Il caduto interpreta la presenza dei molti personaggi di colore che lo circondano, come una disfatta dell’azione di colonizzazione dallo stesso portata avanti, sino ad azzardare l’eventualità di una invasione che ha trasformato i coloni italici, riducendoli al rango di colonizzati.
Notato, oltre che da alcuni bambini, da un documentarista di belle speranze ed immotivati ottimismi, visti gli scarsi risultati che lo accompagnano (legati al disinteresse dilagante della tv odierna per ogni forma di impegno a favore del puro svago), Benito, ritenuto con divertimento da tutti un attore incallito che non riesce a separarsi dal suo personaggio, diventa in seguito, grazie ad una scaltra manager televisiva senza scrupoli, una vera star televisiva, il re delle ospitate, l’icona al servizio e alla maggior gloria dei media, in grado di essere utilizzato per sfondare nuovi record di share di ascolto, fattore quest’ultimo che oggi conta più di ogni altro aspetto, di certo più che della garanzia di qualità.
Sulla falsariga del recente, e assai più strutturato Lui è tornato, film tedesco del 2015 di David Enendt incentrato sul ritorno, con le medesime dinamiche, del fuhrer nella Berlino dei giorni nostri, “Lui è tornato” non serve certo per rimarcare la bravura recitativa di un Massimo Popolizio dalla voce tonante e magnifica: già lo sapevamo da tempo; serve solo a permettere a Luca Miniero di sfornare un filmetto-copia cavalcando un successo già verificato e sfruttando la tragica situazione storica che ci legò tristemente ad Hitler e al Terzo Reich; sperando di sbancare anche noi con la nota formuletta (di questo ormai vive la commedia italiana, di formulette inconsistenti che si spera abbiano la meglio sull’utenza di massa), giocando sui culti, gli arrivismi, le tendenze del vivere moderno, che da capricci del ceto abbiente si sono trasformate via via in costumi irrinunciabili di vita. Tutto ciò filtrato attraverso l’occhio “anziano”, incredulo e smarrito – in quanto impreparato e non aggiornato - della persona di un'altra epoca, dotata di un carattere e di una verve macchiettistica che fu inquietante e solo oggi, a distanza di tempo, può riuscire a far sorridere, e che tutti in qualche modo abbiamo imparato a conoscere.
Ma il film, tecnicamente piuttosto fiacco e buttato li (di ben altra struttura scenografica e tecnica di girato si avvaleva il pur non inarrivabile originale tedesco sopra accennato), si circonda di figurine inconsistenti che, se da una parte permettono al grande attore Popolizio di sfogare tutto l’istrionismo del caso e della situazione, con ironie e sarcasmi opportuni, ma anche facili, tutti telefonati tanto appaiono prevedibili, dall’altro, al contrario, sottolineano il vuoto che, oltre la figura del duce, si crea attorno a questa pellicola davvero scialba.
Parlando di inconsistenze, il ruolo del co-protagonista, interpretato da un altro youtuber immigrato clandestinamente al cinema – tal Frank Matano - è di una pochezza da far rimpiangere (si fa per dire) il personaggio del collega protagonista de Il vegetale, alias Rovazzi, mentre altre figure, come la scaltra e perfida manager resa con spigliatezza da una rediviva Stefania Rocca, sono meri personaggi di pura routine e facciata, visti mille volte, scritti frettolosamente, senza serbare nulla di interessante addentro ai rispettivi personaggi senza spessore o sfaccettature.
Non manca certo, lo ammettiamo, una certa semiseria riflessione di fondo, la volontà di farci (sor)ridere a denti stretti riguardo ad un Paese dalla memoria corta e troppo puerilmente soggetto a condizionamenti televisivi o da capobranco, da Mangiafuoco del paese dei balocchi.
Ma al film mancano le basi cinematografiche e stilistiche necessarie per poter slanciarsi in riflessioni pertinenti e mature di tale calibro.
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