Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
1971: il “New York Times” acquisisce documenti riservati dai quali risulta che tutte le amministrazioni USA del dopoguerra, sia democratiche sia repubblicane, hanno deliberatamente mentito ai cittadini riguardo alla politica nel sud-est asiatico, in particolare fingendo ottimismo sulle prospettive della guerra in Vietnam; una corte federale ne blocca la pubblicazione, ma il concorrente “Washington Post” recupera per altra via i documenti e rilancia la sfida. Il film racconta l’antefatto ideale di Tutti gli uomini del presidente, con Nixon a fare da testa di turco (se ne sente solo la voce al telefono fino alla fine, quando viene inquadrato in campo lungo attraverso una finestra), e anche esteticamente cerca di richiamare gli anni ’70. Una volta tanto è la Streep che zavorra: pur prescindendo dalla voce lagnosa del doppiaggio italiano, su cui non ha colpe, la sua parabola personale da umbratile scolaretta a donna forte si sovrappone troppo al nocciolo della vicenda; e la scena in cui, all’uscita dal tribunale, tutte le donne la osservano con sguardo adorante è l’unico momento veramente fastidioso. Ma non posso farci nulla: questo tipo di cinema civile d’altri tempi, dove i nostri eroi si scontrano con il potere per affermare una questione di principio e senza guardare in faccia agli amici (McNamara, in questo caso), continua ad appassionarmi nonostante la netta sensazione di già visto. Quando la Corte suprema sentenzia che “la stampa serve chi è governato, non chi governa”, quasi quasi ci si crede.
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