Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Se penso a Steven Spielberg i lobi frontali mi suggeriscono le immagini di enormi rettili preistorici, archeologi bramosi di gloria, pesci famelici grossi come barche, dischi volanti che sorvolano strade oscure e deserte. Se penso a lui vedo un cinema popolare di pura evasione ma che dietro la perfezione tecnologica della messa in scena palesa la presenza di tematiche ricorrenti come il timore di crescere, la perdita dell'innocenza nell'età adulta, lo stupore verso l'ignoto, la centralità della famiglia e così via. Pochi registi sono stati in grado di creare in celluloide mondi fantastici ed avventurosi che albergano nell'immaginario collettivo globale e divertono parimenti adulti e bambini. Benché la sua immagine sia legata indissolubilmente a questo genere, è anche vero che i temi cardine della sua cinematografia sono gli stessi che si ritrovano nei lavori più impegnati. Motivo per cui l'accademia del Cinema italiano ha deciso di premiarlo per il suo impegno cinematografico col David di Donatello alla carriera in virtù delle parole espresse da Piera De Tassis: "Lo amiamo per quella sua straordinaria capacità, che lo rende unico, di miscelare le possibilità offerte dalla tecnologia con la suggestione della narrazione, elevati tassi di spettacolarità con situazioni dal forte impatto emotivo: una ricetta che, applicata a quasi tutta la sua opera, ha prodotto un idioma rivoluzionario, divenuto immediatamente universale, in grado di innovare i generi tradizionali e demolire le frontiere, per arrivare a una platea di dimensioni mondiale."
Pur condividendo l'apprezzamento dell'Accademia, ho alcune perplessità quando Spielberg si cimenta in un cinema più autoriale, per la tendenza, che gli è propria, di non controllare pienamente l'afflato emotivo e retorico. I lavori degli ultimi anni, sembrano, tuttavia, contraddire il mio stesso pensiero perché, se è vero che il suo Cinema rimane sempre politicamente schierato e forgiato nel sogno di una società civilmente impegnata, è anche vero che si può riscontrare negli ultimi lavori un maggiore autocontrollo sulla materia narrata e una progressiva disillusione (ma mai una resa al pessimismo).
The post appartiene senz'altro a questa sua nuova maturità artistica insieme ad altri titoli come "Lincoln" e "Il ponte delle spie".
In "The Post", il regista di Cincinnati, interessato alle particolari contingenze politiche e sociali (l'elezione Trump, gli scandali Fbi e le numerose epurazioni presidenziali, le fake news) pone all'ordine del giorno il tema del diritto di stampa, da una parte, ed il diritto di informazione, dall'altra, raccontando la celebre vicenda dei Pentagon Papers, documenti riservati e trafugati che dimostravano quanto fosse fallimentare la campagna militare in Vietnam fin dai suoi inizi. L'intervento di Nixon che nel 1971 intimò al New York Times di non pubblicare le informazioni estrapolate dalla studio di guerra voluto dall'ex ministro della difesa McNamara qualche anno prima, scatenò un dibattito di portata storica che vede, nella ricostruzione filmica, attori privilegiati Katherine Graham proprietaria del Washington Post e Ben Bradlee capo redattore alle sue dipendenze. Spielberg sceglie di raccontare l'avvenimento attraverso le azioni ed i dialoghi tra i due personaggi mettendo in secondo piano l'inchiesta giornalistica vera e propria. Questa attenzione verso la caratterizzazione ci restituisce due personaggi mai banali e spesso in disaccordo, comunque costretti a lavorare su se stessi per affrontare le minacce incombenti. Kay Graham è proprietaria di un quotidiano che sta per essere quotato in borsa e non ha bisogno di scossoni durante il lasso di tempo in cui gli investitori, alias le banche, possono fare marcia indietro. Non vorrebbe pubblicare il pezzo proposto da Breedle per non scontrarsi con la presidenza, per non perdere capitali e soprattutto perché non è mai stata abituata a prendere decisioni che al giornale sono sempre state ad appannaggio del padre e del marito. Katherine inoltre è logorata da un sentimento di scarsa autostima dovuto alla scialba considerazione che di lei hanno quasi tutti i membri del C.d.a., e dalla difficoltà di trovare un posto nella società che ben si riflette nella scena in cui nel proprio salotto ascolta svogliatamente il chiacchiericcio banale delle invitate mentre i mariti discutono di affari e del giornale nella stanza contigua, luogo in cui lei stessa dovrebbe stare per il ruolo di imprenditrice che detiene, ma che le convenzioni sociali dell'alta borghesia le impediscono di frequentare in quanto donna. L'amicizia di lunga data con McNamara e l'appartenenza al mondo dorato della presidenza Kennedy, che in qualche modo dovrebbe sconfessare ammettendo errori nel aver dato credito ciecamente alla politica presidenziale, la rendono ulteriormente riottosa nel prendere la decisione. Del resto, il suo caporedattore si trova nella stessa situazione. Anche lui frequentatore dei salotti buoni di Jackie e Jack si è lasciato offuscare la vista dal bel mondo e deve fare i conti con la propria coscienza di giornalista e con le conseguenze di una decisione che una volta presa può mettere a repentaglio la proprietà e il futuro del giornale. E d'altro canto come ogni reporter che si rispetti fatica a lasciar andare un'occasione tanto ghiotta per la carriera professionale. L'introspezione psicologica dei due protagonisti gioca un ruolo chiave e la signora Streep ed il signor Hanks contribuiscono con abnegazione e con mestiere. Spielberg dà spazio agli attori, omaggia i tempi d'oro della stampa rovinati dalle fake news di oggi, guarda con attenzione al ruolo della donna nel mondo degli affari e della famiglia con una chiave di lettura moderna e sincera, si insinua nel mondo insidioso dell'alta finanza. Ma soprattutto mostra di credere nel diritto all'informazione che non deve essere imbavagliato dal potere e manipolato per instradare gli elettori verso precise scelte politiche. Se escludiamo qualche picco di retorica tipicamente americana(spielberghiana) come nella comunicazione del verdetto della Corte tramite il telefono (ma forse un tempo il regista avrebbe girato la scena in aula con tanto di pompa magna), il film è diretto con un discreto distacco e con una pregevole dose d'ironia che trova il culmine nelle stanze illuminate dalla fioca luce di una torcia nel Watergate Hotel.
Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara
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