Regia di Steven Spielberg vedi scheda film
Riesumando l’impegno civile del cinema americano anni ’70, Steven Spielberg espone una nuova "lectio magistralis" su cinema, etica e valori. Sovrappone temi di ieri alle urgenze attuali, con un’esecuzione precisa e idee chiare. Inutile aggiungere che Meryl Streep e Tom Hanks sono un ulteriore fiore all’occhiello.
«La stampa serve chi è governato, non chi governa».
Ogni individuo è chiamato quotidianamente a prendere delle decisioni, ad assumersi delle responsabilità. Paradossalmente, per quelle più banali è concesso uno spazio di riflessione, mentre il più delle volte quelle critiche richiedono un tempo di reazione praticamente nullo. Capita così di trovarsi sul ciglio di un dirupo, di doversi giocare tutto ed è a questo punto che le motivazioni esercitano un ruolo preponderante, che i calcoli di convenienza possono lasciare il campo ad altro, senza ammettere la presenza di un paracadute.
Tenendo saldamente i piedi in due scarpe, guardando al passato per riverberarsi direttamente sul presente con una limpida aderenza, The Post contempla movimenti continui e di diversa genesi, richiamando all’ordine l’informazione al tempo delle fake news, facendo perno sulla leggerezza di tocco tipicamente spielberghiana per superare gli scogli della comprensione, per una semplicità di esecuzione – quella del regista di Cincinnati - che nessuno oggi – e da decenni - può eguagliare.
Stati Uniti, giugno 1971. Il New York Times ha appena pubblicato dei documenti governativi secretati e per questo è bloccato da un’inchiesta. Lo stesso materiale finisce nelle mani di Ben Bagdikian (Bob Odenkirk) del Washington Post e il suo direttore Ben Bradlee (Tom Hanks) fiuta l’occasione per uscire dall’ombra dei quotidiani più popolari.
Pubblicare quanto in loro possesso comporta un rischio potenzialmente esiziale e l’ultima parola spetta all’editrice Katherine Graham (Meryl Streep), strattonata da chi le consiglia di pensare bene alle conseguenze delle sue azioni, ma anche sospinta dalla volontà di fare ciò che è giusto, prendendo in mano il proprio destino.
Seppur in tono minore, questa stagione di Steven Spielberg obbliga a compiere un salto indietro sulla ruota del tempo, a quel periodo 1992/1993 che fu il suo più fortunato, tra le critiche altisonanti e i tanti premi di Schindler’s list e l’enorme successo di pubblico di Jurassic Park. Così, a fine marzo il botteghino attende in gloria il suo Ready player one (un hype altissimo già al primo trailer proiettato al Comic-Con), mentre a fine 2017 ha esordito negli States il più impegnato The Post, già pluricandidato ai Golden Globes e sottostimato ai prossimi Oscar (e la stampa americana ha in buona sostanza sottolineato le poche candidature ricevute come la nota più stonata delle varie cinquine).
Sicuramente Steven Spielberg non ci perderà il sonno e il suo film è talmente carico di significati, coadiuvati dal suo proverbiale e unico approccio, di articolazioni principali e dettagli fulminanti, da elementi biografici e valori quanto mai sensibili, da renderlo estremamente pertinente all’attualità.
Quella espressa da The Post è una visuale multicanale, che oltre alle caratteristiche appena menzionate non soffre di claustrofobia o di una qualsivoglia forma di stasi nonostante le tematiche principali, con una capacità comunicativa che gli permette di non rimanere semplicemente prono alle affinità elettive con il cinema impegnato degli anni ’70, in ogni caso ampiamente omaggiato, al pari del coraggio di uomini e – finalmente – donne, altro elemento che gli consente di essere affine al momento storico che stiamo vivendo (pure in anticipo dato che è stato diretto mesi fa).
Procedendo per gradi, dall’attacco del film in Vietnam, è subito messo in chiaro come la prospettiva tra dentro e fuori – i fatti – possa divergere, con ciò che viene detto e quanto aleggia nel pensiero, sollevando subitaneamente una questione etica, tra la verità e l’interesse del potere a non condividerla appieno. Un atto fondativo, esemplare per rendere chiara l’intera mission, che mette nel mirino quei piani alti che pensano alla conservazione del proprio status quo, per cui una guerra senza speranza non viene interrotta – da anni e presidenze - semplicemente perché nessuno ha la benché minima voglia di accollarsi la sconfitta e rimetterci la faccia.
Segnatamente, il discorso è bipartisan. Nixon è (ri)visto come il male assoluto ma non vengono nemmeno omesse le frecciate a chi ha governato prima di lui, anzi i riferimenti alle amicizie sono sibillini e puntuali, mentre la composizione avanza a spron battuto, ricordando come il giornalismo di qualità abbia sempre incontrato i suoi ostacoli, costruendosi, e articolandosi, su più tavoli. Interni a più voci che la fotografia di Janusz Kaminski rende quanto mai dinamici, sia all’interno della redazione, sia quando gli incontri privati coinvolgono varie voci, per una messa in scena scrupolosa.
In ogni caso, a primeggiare non è la classica indagine quanto il diritto di sapere, la necessità di divulgare nonostante mettersi contro i pesci grossi possa essere distruttivo, una contingenza nella quale il confine tra prudenza e paura è sottile. Una questione etica sottolineata alla perfezione dalla prima condivisione della scena di due mostri sacri del cinema americano. Tom Hanks è il braccio vibrante, mentre Meryl Streep – la cui candidatura agli Oscar è il terzo appuntamento più habitué dell’anno dopo il Natale e la Pasqua – è il cuore pulsante: insieme disegnano un rapporto di collaborazione tra uomo e donna quanto mai unico, che non ha alcun bisogno di andare oltre il lato professionale.
Forte anche di un finale pertinente e smaliziato, che si ricollega alla Storia e al cinema – vedi Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula -, The Post chiude il cerchio senza smagliature macroscopiche, pur essendo ligio al dovere e più abile nel creare singolo macrozone di alta qualità piuttosto che possedere una spinta costante, optando con convinzione per la fluidità di racconto e per messaggi universali, sostituendoli alla tensione radicale dei più illustri predecessori in materia (vedi ancora Alan J. Pakula).
Tutto d’un pezzo, se non nell’esposizione, sicuramente negli ideali, che vanno ben oltre il singolo mandato della storia vera.
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