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The Post

Regia di Steven Spielberg vedi scheda film

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alan smithee

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La recensione su The Post

di alan smithee
7 stelle

CINEMA OLTRECONFINE 

Pubblicare o non pubblicare? Questo il dilemma. Che affligge, nell’estate del 1971, il direttore del Washington Post, Ben Bradlee e la relativa editrice, Katharine Graham, figlia del fondatore del giornale, e da anni vedova costretta a sobbarcarsi l’onere di mandare avanti un giornale storico, ma in quegli anni anche una testata piuttosto in crisi, che con questa allettante opportunità potrebbe rinverdire la propria immagine, impolverata e sbiadita da tempo.

I cruciali “Pentagon Papers” custodiscono segreti e tattiche governative cruciali che ben quattro presidenti americani hanno scelto di tener celate alla pubblica opinione, specie quelli inerenti il Ministero della Difesa nel ventenni precedente il coinvolgimento Usa in Vietnam.

Da quel momento, la fondamentale e cruciale decisione se rendere pubblico lo scottante segreto di stato o lasciarlo sepolto, rendendo nel primo caso giustizia e servizio a quel Primo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America che costituisce il vanto dell’Occidente su resto del mondo, rende i due titubanti responsabili della stessa – passibili a seguito di quella clamorosa decisione, di essere imputabili di alto tradimento -  i simboli ed i garanti di un radicale processo di definizione del concetto più concreto del diritto alla libertà di stampa, a cui devono aspirare i cittadini della democrazia per antonomasia, come amano definirsi concettualmente e con una certa ostentazione, nonostante le molte contraddizioni passate e presenti, gli Usa baluardo delle libertà occidentali.

Steven Spielberg torna, con The Post, al film impegnato, ed in particolare a quello che ancora una volta indaga sui fatti salienti e scottanti che hanno determinato la crescita e lo sviluppo della sua nazione: da una sceneggiatura, come sempre impeccabile – ad opera del duo Liz Hannah e Josh Singer, che tuttavia non rinuncia, pur senza eccedere nell’enfasi, a puntare su capisaldi morali come l’orgoglio e l’onestà fi fondo americani come leva e soluzione per dirimere una questione morale in grado di dare una lezione in termini di libertà ed onestà intellettuale – Spielberg sviluppa un racconto-indagine che riesce a far proprio un ritmo da thriller, ove l’impossibile riesce ad arrivare a vedere la luce grazie alla caparbietà e all’onestà di fondo di due persone che, almeno apparentemente, hanno tutto da perdere, e proprio per questo, si ostinano ad agire a favore della verità e della conoscenza.

Certo, a dirla tutta, almeno per quanto mi riguarda, e probabilmente per molto altri cittadini del resto del mondo, la vicenda non racchiude entro se stessa, quell’interesse spasmodico e vitale che aiuta a restare avvinti all’evoluzione dei fatti; ma trattandosi di Spielberg, è sufficiente mettere anche solo un po’ da parte l’interesse emotivo e concentrarsi a fare lo spettatore tecnico, per farsi catturare dallo stile incalzante con cui il grande cineasta riesce a guidare ogni azione, a giostrare l’organizzazione di ogni scena, anche quelle apparentemente più semplici.

Ed è bello seguire i movimenti di macchina, spiare l’evoluzione delle riprese sempre tecnicamente mirabili anche quando non vogliono assolutamente sorprendere con effetti particolari, ma solo riprendere nel migliore dei modi e cogliere più appropriatamente espressioni, azioni ed atteggiamenti sia dei due grandi attori coinvolti (Meryl Streep/Tom Hanks), sia del resto del solido, professionale, seppur non altisonante, cast che li affianca, avvolti tutti dalla fotografia calda ed avvolgente di un maestro del calibro di Janusz Kaminski, collaboratore privilegiato da anni di Spielberg.

E certo - quelle situazioni d’urgenza con i giornalisti efficienti, affiatati a fin di bene e verità tutti assembrati allo scoccare del termine ultimo per avviare le rotative, a casa del direttore Hanks con la moglie accorata che prepara sandwich con tacchino e maionese e la figlia scaltra (ma simpatica) che vende limonata rincarando il prezzo al crescere della domanda; o ancora le serate di gala in casa della manager e nonna Streep, ove quest’ultima si presenta avvolta da un sontuoso sudario dorato come una nuova “faraona” Nefertiti; per non parlare di quelle esultazioni/esaltazioni di gruppo quando il successo dell’azione intrepida appena compiuta premia coerentemente (ma pure pedantemente e prevedibilmente) la scelta più dura, quella che si rivela l’unica via propria per la riscossa della verità – ebbene tutte queste situazioni molto ma molto americane e trionfalistiche, fanno un po’ (sor)ridere, e un po’ pensare male o almeno maliziosamente, a proposito della imperante ingenuità di questo ostinato popolo di combattenti, comprensibilmente propenso a dar valore alla democrazia che li guida, li circonda, e talvolta annebbia loro la corretta visione della verità che è difficile da rendere pubblica.

Ma nel complesso The Post rimane un film impeccabile, non proprio emozionante, travolgente, ma tecnicamente e formalmente quasi perfetto, che sa alternare momenti tesi, forti di una certa suspence (i tempi tecnici improrogabili per l'avvio delle rotative, e la decisione che non arriva entro il tempo massimo), a risvolti umani in cui il carattere e l’umanità dei personaggi, ben tratteggiato dai due mostri sacri di cui sopra, li conduce a decidere verso la soluzione meno umanamente scontata, più ardua, più temeraria, ma più rispettosa dei diritti insiti nel concetto di democrazia, verità e libertà di espressione di cui è orgogliosamente intrisa la società a stelle e strisce.

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