Regia di Rupert Wyatt vedi scheda film
Stranamente demolito da gran parte della critica “ufficiale”, il ritorno alla regia di Wyatt dopo il non proprio brillante The Gambler è invece un interessante film di fantascienza, chiaramente non eccessivamente originale, ma altrettanto chiaramente neppure eccessivamente insopportabile.
E’ vero, non è sempre perfettamente bilanciato, ci mette un po’ a decidersi su dove voglia andare a parare e di conseguenza nella prima mezz’oretta si trascina alquanto, tirandola lunga, ma dal momento dell’inizio dell’intricata trafila di preparazione per l’attentato si tramuta in un film teso e coinvolgente.
Non un banale film d’azione hollywoodiano stile Independence Day o Battleship, ma un film più adulto, non per questo tremendamente complesso, memorabile o ipnotizzante, ma un fantascientifico con messaggio, cupo e tenebroso, un thriller politico dai sottintesi per nulla scontati, anche se poco sviluppati e non si sa in che misura attivamente ricercati (molto interessante, ad esempio, la riflessione circa la storia come memoria e strumento di ribellione [attraverso l’esempio, e il monito, del passato si deve cercare di modificare il futuro]; ma centrali sono anche, ovviamente, la questione della lotta di liberazione dall’invasore, dall’oppressione, dalla dittatura [sempreverde topos narrativo capace di stuzzicare la fantasia degli uomini di qualunque epoca], e l’altra, annosa, questione dell’acquiescenza della maggioranza, che pare non porsi problemi nell’accettare le cose così come stanno, di certo non fa nulla per cambiarle, mentre la ribellione è sempre affidata al coraggio e all’iniziativa dei pochi).
Si tratta di temi già ampiamente affrontati da un vasto campionario di letteratura e cinematografica antecedenti, è evidente, ma che ciononostante elevano un minimo il livello del film, sicuramente oltre la sufficienza.
Poi, si può concedere, rimane pur sempre il fatto che il finale è neanche troppo vagamente prevedibile e che alcuni passaggi risultano quantomeno “curiosi”
(SPOILER: vedi la scena sul finale della relazione ai legislatori, nel corso della quale a Mulligan viene chiesto direttamente se sia o meno coinvolto, e a lui per chiudere il discorso basta un alzata di spalle, la riunione viene dunque chiusa e sempre lui viene incredibilmente nominato sostituto commissario in quattro e quattr’otto nonostante gli evidenti sospetti che a quanto pare ricadono sulla sua persona [perché, se così non fosse, in che altro modo si giustificherebbe la domanda circa la sua affidabilità?] FINE SPOILER),
ma il film non ne risente terribilmente.
E il risultato finale è sicuramente elevato dalle buone interpretazioni degli attori (Goodman è pur sempre Goodman), dalla livida e scura fotografia di Alex Disenhof e dalla martellanti ma efficacissime musiche di Rob Simonsen.
Tutto considerato, Captive State risulta essere un buon film, non imperdibile ma neanche inguardabile, dalle premesse evidentemente derivative ma dagli sviluppi interessanti, che di certo non si merita tutto l’astio di cui è stato fatto oggetto, sia dalla critica che dal pubblico (tremendo il tonfo al botteghino).
Costato “appena” 25 milioni di dollari, per l’appunto non arriva ad incassarne neppure 9, finendo largamente ignorato. Peccato.
Il titolo è possibile contenga un doppio senso ovviamente di natura non sessuale (“stato di cattività” ma anche forse “Stato in cattività”, ovvero Stato per nulla democratico, prigioniero, succube, dominato; nonché stato pure mentale di totale "asfissia", prigione della mente...).
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta