Regia di Rupert Wyatt vedi scheda film
«La rivoluzione non è un pranzo di gala».
Quando i tempi sono grami, è indispensabile prendere una posizione. A tutti gli effetti, rimanere con le braccia conserte equivale a stare dalla parte del potere dominante, mentre la decisione di scendere in campo per combattere contempla rischi esiziali e dolorose rinunce. In ogni caso, per cambiare gli equilibri occorre tempo e la consapevolezza che finiranno a referto numerose perdite, dolorose ma necessarie per aprire una breccia nel sistema, coltivare la speranza e quindi tenere aperta una porta con vista su un futuro alternativo.
Captive state prende una strada diversa dal benchmark dei soliti film di fantascienza predisposti per appagare il desiderio d’evasione, coagulando generi e figure espressive per impiantare un seme prefigurato con il fine di smuovere il torpore sedimentato nella coscienza.
Chicago, 2027. Da una decina di anni, una razza aliena detiene il comando dell’intero pianeta, dialogando strettamente con l’umanità pur rimanendo nell’ombra. Nel frattempo, gli esseri umani si sono divisi tra chi ha accettato di collaborare con i nuovi leader, traendone vantaggi, e chi non ha mai rinunciato a combattere per riconquistare la libertà.
In questo contesto, l’agente William Mulligan (John Goodman) mantiene l’ordine e dà la caccia a un esiguo manipolo di ribelli pronti a colpire da un momento all’altro, mentre il giovane Gabriel Drummond (Ashton Sanders) si ritrova tra l’incudine e il martello, obbligato a prendere una posizione che condizionerà il suo futuro.
Dopo aver lasciato buone sensazioni alla guida de L’alba del pianeta delle scimmie, Rupert Wyatt rincara la dose, cimentandosi nuovamente con un modello di fantascienza che agli effetti speciali preferisce significati correlati a una realtà tutto fuorché fantasiosa.
Se il punto d’ingresso predispone organicamente le fondamenta catapultando lo spettatore in un futuro prossimo inimmaginabile, ben presto risulta chiaro come le intenzioni vertano su una descrizione umana del sistema globale creatosi e sviluppatosi nel secolo corrente e nel precedente.
In fondo, gran parte di Captive state non è altro che una gigantesca allegoria, a cominciare dal dominio alieno che, nel suo essere principalmente tenuto fuori campo, rappresenta perfettamente quei poteri economici attualmente insediatisi a un livello addirittura superiore agli stati sovrani, con la loro capacità – per non dire costante minaccia - di scatenare chirurgicamente crisi devastanti. Parimenti, l’umanità è suddivisa tra chi fa scelte di convenienza (la maggioranza) e chi non rinuncia agli ideali, testimoniando nelle sue dimensioni schiaccianti quanto il benessere personale e la paura di proferire un verbo contrario ai dogmi imposti, contino più di esercitare il naturale privilegio della libertà di scelta.
Attraverso un’impostazione matura e pianificata, Il film poggia completamente su questa disposizione, con un numero esiguo di picchi e una preminente natura da thriller di lotta continua, senza disdegnare i legami umani e qualche sporadica scheggia di romanticismo (vedasi il rapporto tra Mulligan e Jane, interpretati da un insondabile John Goodman e da una crepuscolare Vera Farmiga).
Dunque, lo scenario è ricco di occasioni e di finestre allettanti, caratteristica che costringe a relegare più porzioni in margini castranti, inoltre fatica ad animare parte dei personaggi in gioco e paga anche il suo pregevole senso della misura mostrandosi per lunghi tratti sottotono.
A suo favore, va detto che, per quanto parzialmente prevedibile, la parte finale è la più avvincente, ma la sensazione preponderante spinge e pensare che il soggetto sarebbe stato più consono a un trattamento seriale dal lungo respiro, un po’ per dar piena voce a tanti duetti appena accennati e a personaggi privi di un sufficiente background, un po’ perché lo stesso finale lascerebbe auspicare una continuazione che, con ogni probabilità, non vedrà mai la luce.
Nel suo complesso, Captive state acquisisce un’identità degna di nota, in parte soggiogata dalla difficoltà di mantenere alta e costante la tensione, utilizzando il vettore fantascientifico come rivestimento per rammentare quanto siano deleterie le forme di controllo imposte dall’alto, come la Storia vada studiata e quindi rammentata, tra cavalli di Troia da utilizzare per scardinare difese altrimenti invalicabili e per riconoscere la violenza sistematica, intrapresa non per garantire la sicurezza quanto per annientare chi potrebbe far proliferare un messaggio divergente da quello imposto (anche qui, tra rastrellamenti, prigionia di massa e torture non difetta in nulla, ma tutto è espresso con un accenno fugace).
Incisivo per i significati che introietta, un po’ dispersivo e troppo piano nella composizione.
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