Regia di Lisa Brühlmann vedi scheda film
Raccontare il corpo adolescente attraverso la trasformazione della carne e dei suoi nuovi impulsi è un classico che risale fino agli albori del cinema e della letteratura. Da Cronemberg in avanti si usa la definizione di body horror per definire quei film horror in cui il corpo, la carne e la sessualità non solo sono le tematiche principali del racconto, ma anche il motore narrativo e l’iconografia di base. Solitamente è la licantropia, intesa quasi esclusivamente in senso lupesco, ad innervare la narrazione con i suoi topoi più conosciuti, dal “morso” contagioso piuttosto che la scoperta del cambiamento simultaneamente ai cambi fisiologici, fino al controllo del corpo, dei propri impulsi e l’appetito cannibalico. La carne è comunque al centro della narrazione come della forma e del contenuto, insieme al corpo e alla sessualità e a ogni fisiologia umana, in particolare adolescente. Da I Was a Teenage Werewolf (Gene Fowler Jr., 1957), ovviamente privo di un’estetica carnale, a An American Werewolf in London (John Landis, 1981), passando per il film capostipite del filone, ovvero Teen Wolf (Rod Daniel, 1985), per The Company of the Wolves (Neil Jordan, 1984) Cursed (Wes Craven, 2004), la trilogia di Ginger Snaps (John Fawcett, 2000; Brett Sullivan, 2004; Grent Harvey, 2004), Wild Country (Craig Strachan, 2005), Big Bad Wolf (Lance W. Dreesen, 2006), Wolves (David Hayter, 2014), Når dyrene drømmer (Jonas Alexander Arnby, 2014), Uncaged (Daniel Robbins, 2016); per non parlare di serie come Teen Wolf (Jeff Davis, 2011-2017) e Hemlock Grove (McGreevy/Shipman, 2013-2015) che hanno rivitalizzato il mito licantropico proprio in chiave adolescenziale utilizzando il corpo come primo elemento narrativo.
Il film svizzero diretto da Lisa Brühlmann, al posto del totemico lupo, utilizza il mito della sirena, forse più adatto per descrivere l’universo femminile – anche se la versione ferale e predatoria della lupa mannara non è certo inferiore. Ulteriore segnale di una tendenza del secondo decennio dei 2000 in cui titoli come Nymph (Milan Todorovic, 2014), The Lure (Agnieszka Smoczy?ska, 2015), Mermaid: Lake of Death (Svyatoslav Podgayevskiy, 2018) e lo stesso Blue My Mind, hanno rispolverato la figura della sirena in chiave orrorifica o, per lo meno gotica, con anche inflessioni brillanti.
Nonostante questo cambio figurativo, i topoi del genere e i motivi tipici e consolidati della narrazione licantropica, benché qui meno sensazionalistica di un film sui lupi mannari, funzionano sempre da ossatura di base. La ragazza protagonista, dall’inclinazione lesbica, affronta la sua trasformazione in sirena contemporaneamente al primo ciclo mestruale e alle prime tensioni sessuali, in questo caso anche omoerotiche. A tutto ciò corrisponde anche un aumento della scontrosità, dell’incapacità di dominare le proprie pulsioni e ovviamente un aumento dell’appetito, come metafora della libido sessuale sempre più forte e ingestibile, con l’unica differenza che al posto della classica carne cruda dei giovani lupi mannari, è il pesce crudo il miraggio alimentare della protagonista.
Il film non si scosta troppo dalla modulazione narrativa di un classico werewolf movie, ma grazie a una messa in scena autoriale ed iconograficamente evocativa, oltre a una regia minimalista, il racconto che la Brühlmann fa del passaggio all’età adulta in cerca di se stessi è una riuscitissima favola nera, cupa e sconsolante, nonostante il finale liberatorio. Inoltre, l’elemento sessuale che ne fonda il contenuto è formalmente articolato nella disseminazione di nudi femminili e maschili, anche frontali. Il che, in tempi di catrazioni varie, è un passo avanti nella narrazione del corpo. Anche se poteva essere molto più audace.
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