Regia di Paul Schrader vedi scheda film
Dichiarò Paul Schrader di essersi ispirato ad "Ida" di Pawel Pawlikowski nella scelta del rapporto 4:3 per il suo "First reformed" del 2016. Il rapporto adottato gli avrebbe consentito una maggior introspezione psicologica ed una focalizzazione maggiore sui corpi e sugli sguardi dei personaggi. In effetti il film di Schrader, con protagonista Ethan Hawke, si concentrava, essenzialmente, sul volto del protagonista, un pastore della Chiesa Riformata, e sulle irrisolte questioni personali che lo affliggevano da tempo. Il rapporto era idoneo a porre al centro dell'analisi l'uomo e i dubbi di una fede nata in modo repentino dopo la morte del figlio, spinto alla carriera di soldato dal proprio padre, e perito violentemente nei campi insanguinati dell'Iraq.
La scelta del regista ha richiamato ai miei occhi la percezione visiva degli edifici di culto, spesso e volentieri proiettati verso l'alto e fotograficamente più idonei ad essere ritratti verticalmente con conseguente riduzione dello spazio orizzontale e dilatazione dello spazio verticale.
Il reverendo Toller era un pastore e seguiva la sua piccola e anemica comunità di anime al cui centro vi era, appunto, una chiesa, un'edificio bianco e immacolato, che avrebbe festeggiato 250 anni dalla sua fondazione nonostante la secolarizzazione dei costumi contemporanei avesse causato la perdita di moltissimi fedeli.
In realtà lo slancio architettonico, che vorrebbe rappresentare la piccolezza dell'uomo rispetto al divino, e si lega indissolubilmente al concetto dello spirito da innalzare verso la fonte primaria di vita, era smorzato dalle inquadrature di Shrader che faceva della chiesa un non luogo dell'anima in cui, a pesare maggiormente, erano l'assenza di fedeli, l'umana fragilità del pastore ed il maggior attaccamento alle cose terrene che alle cose di Dio. Il formato cinematografico, dunque, finiva per sgretolare la mia prima impressione rendendo semmai gli spazi della fede angusti e opprimenti anziché sospinti verso il cielo, da sempre casa di Dio.
Ottimo il lavoro di Alexander Dynan che usava cromatismi che variavano dal grigio all'avio per palesare l'aridità di un mondo armai senza spirito dove le chiese finivano per ancorarsi alle esigenze terrene e dipendere dalle laute donazioni di imprenditori senza scrupoli che irroravano di veleni la terra di Dio e chiedevano, in cambio di danaro, la benedizione religiosa per continuare nel loro operato. Il reverendo Toller già tormento dal proprio passato aveva conosciuto questa triste realtà dopo aver accudito un'anima irrequieta, un giovane e radicale ambientalista che non voleva il figlio custodito nel grembo della compagna, perché quel figlio avrebbe vissuto in un pianeta sempre più compromesso dalle pratiche umane, un pianeta sempre più lontano dal biblico Eden. Il suicidio dell'uomo, sopraffatto dall'impotenza aveva spinto l'uomo di chiesa, malato e svuotato da una fede che doveva scendere a compromessi, a prendere il posto di quel giovane combattente che, ricordandogli il figlio, riapriva vecchie ferite, più profonde e radicate di quelle superficiali ma irrorate di sangue, provocate da un filo di ferro conficcato nelle carni. Il reverendo Toller avrebbe continuato l'opera distruttrice del giovane Michael che non potendo vincere il nemico aveva scelto la via più atroce per batterlo e rimanerne sconfitto? Schrader, ancora una volta si metteva nelle mani di Dynan che optava per luci scure e calde, dominate dal giallo, per raccontare una fede dubbiosa e una vivacità intellettuale che non poteva percorrere le stesse vie di annientamento prodotte dal crollo della fede propria e altrui. Ho amato gli spazi ristretti e parchi dove Toller, come un amanuense benedettino di epoche dimenticate, imprimva, su un quaderno illuminato da una luca intima ed amica, il percorso dei propri pensieri. Tutto intorno era il colore caldo dei mobili, il silenzio della penombra e il balsamico fuoco di un bicchiere di Scotch che lo avvicinava a Dio più di qualunque sermone.
Se Abel Ferrara è stato l'audace e bellicoso cantore di un cattolicesimo violento e persecutore in cui l'uomo era destinato, immancabilmente, a morire senza alcuna possibilità di redenzione di fronte al proprio peccato, nel Schrader di "First reformed", cresciuto in un esasperante e rigido sentire calvinista, si sono anteposti i concetti di "penitenza" intesa come "punizione corporale" e "perdono". L'espiazione nel cilicio dei propri peccati è stata vista nel cristianesimo come un atto eroico che avrebbe strappato a Dio un'indulgenza plenaria. Ma il perdono è mai questo secondo Schrader? Per farsi amare da Dio era necessario mortificare la carne e rinunciare alla propria salute? Il perdono non è forse un gesto d'amore, volendo ribaltarne il concetto secondo un sentire più attuale? Quel corpo compromesso dal cancro, dall'alcool, dai rimorsi e dalla mancanza di cure non poteva ambire a qualcosa di più costruttivo di un bicchiere di veleno e un'esplosione che non avrebbe guarito una Terra afflitta dallo stesso tumore? A differenza di Abel Ferrara lo Schrader maturo di "First reformed" ci lasciava il tenue fuoco della speranza in un catartico finale. Mentre una voce melodiosa ma triste si elevava al cielo per supplicare clemenza una donna si gettava fra le braccia di un uomo cambiandone le prospettive. Il perdono di Dio era, finalmente, arrivato nel movimento circolare di una danza mistica e ristoratrice, sensuale e caritatevole. (V.o.s.)
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