Regia di Vivian Qu vedi scheda film
Venezia 74 – Concorso ufficiale.
Dalla Cina con indignazione. Nel caso di Angels wear white non si può parlare di un brutto film a priori, ma se spostiamo l’asticella sulla sua capacità di analisi e densità narrativa, allora vengono alla ribalta segnali poco incoraggianti.
Il materiale umano c’è, eccome se c’è, ma lo sviluppo e le idee formali sembrano essere più orientate a destare disdegno e a curare l’immagine, piuttosto di arrivare con il calibro all’essenza di un doppio, e interconnesso, dramma, con il sistema che scaraventa in un angolo gli elementi più deboli per tutelare se stesso.
Ragionare in questi termini è controproducente.
Cina, in una località balneare. Due ragazzine sono vittime degli abusi di un adulto all’interno di un albergo. Dalla reception, Mia ha le prove del fatto, ma dal basso della sua situazione di clandestina non può che soprassedere. Le indagini della polizia si fanno insistenti, ma il sistema sembra voler far di tutto pur di tutelare il responsabile, un uomo che evidentemente non può essere toccato.
Sia Mia, sia Wen, una delle due vittime, si troveranno sempre più isolate e stritolate, senza orizzonti sereni in cui sperare.
Da anni la Cina è la nuova frontiera dello sviluppo, una nazione formato continente dove calpestare ogni forma di diritto è estremamente facile. L’attenzione è concentrata sul pil, se fai parte del gruppo che conta, puoi tranquillamente scavallare le regole e le vittime di turno dovranno rassegnarsi. Nel migliore dei casi, avranno un tornaconto economico per mettere tutto a tacere, come la retta universitaria pagata, nel peggiore, solo l’oblio ad accompagnarle.
Seguendo queste generalità, Vivian Qu promuove un doppio caso spinoso, di quelli che lasciano strascichi pressoché infiniti ma non discerne l’essenza realista, come per esempio aveva fatto The donor, premiato al Tff 2016, un’opera che non lasciava mezzo pezzo per strada.
Qui si fa tutto di un’erba un fascio, l’articolazione porta avanti due strade in parallelo, prendendo tempi inutili, preferendo il dissesto, peraltro non sempre incisivo, alla disamina approfondita.
In tal senso, l’ultimo spezzone è un disastro di approssimazioni, tanto da arrivare oltre la soglia del fastidio, ma un po’ tutta l’opera tende a giocare su associazioni di rapida assimilazione. Soprassiede su troppi aspetti che sollevano quesiti e gioca facile, amando ricorrere a simboli di richiamo sensoriale.
Il peggio arriva comunque proprio sulla linea del traguardo. Angels wear white richiede pazienza, pur non lasciando spazio alla noia, ma poi la sua rete porta a un pescato deludente. Scandalizzare è facile, far riflettere è un impegno più ostico e Vivian Qu arriva malamente al suo centro di gravità, richiedendo obbligatoriamente di stare a un patto che incorpora troppe licenze, soprattutto in considerazione dei temi che tratta.
Un’opera quindi non definita nel dettaglio, che lascia troppi nervi scoperti, cercando anche soluzioni altisonanti per poi ripiegare su chiusure semplificate e aleatorie. Ridateci lo Zhang Yimou prima maniera. Di queste brutte copie, con più arte che parte, si può tranquillamente farne a meno.
Effimero nonostante la delicatezza degli argomenti, rimuovibile senza troppi rimorsi.
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