Regia di Andrew V. McLaglen vedi scheda film
Gli ultimi giganti ovvero Mosè contro Pat Garrett. E dei due, nonostante il finale tipicamente hollywoodiano, vince davvero il secondo. Non solo il personaggio di James Coburn – uno dei migliori westerner di sempre per chi scrive – è affascinante già soltanto sulla carta, per la sua ambiguità, la sua complessità, le scene, le battute, la tipologia di personaggio, ma anche l’interpretazione dello stesso Coburn è assolutamente disarmante. Un ruolo tra i migliori di Coburn in assoluto, dove un personaggio, canaglia antieroica, piace fin da subito, ma che con il proseguo della vicenda si fa più complesso e al tempo stesso più fumettistico, diventando cattivo e solo cattivo, e piacendo forse di meno o forse di più, a seconda delle inclinazioni e gusti personali. Ciò che è certo nel film di McLaglen è che Charlton Heston doveva morire, mentre Coburn sopravvivere, magari acciaccato, ferito a morte, ipotizzando magari una morte breve fuori dallo schermo, ma pur sempre vivo e trionfante sul cadavere del vecchio Mosè.
Nonostante la scelta conservativa, molto rooseveltiana nonostante l’epoca del film – tratto da un romanzo di Brian Garfield, lo stesso de Il giustiziere della notte, quindi comunque un testo di difficile interpretazione, facilmente confondibile per puro conservatorismo, ma con un altrettanto grande animo tra il nichilista e la denuncia sociale da renderlo progressista – la storia del vecchio sceriffo Heston sulle tracce di una vecchia conoscenza che tira in ballo il vecchio West, i vecchi valori, il vecchio mondo agreste fatto di onore e grandi uomini, sia da una parte che dall’altra della legge, è un chiaro racconto revisionista che mette in luce la nostalgia e la corruzione di un mondo che aveva fatto una Nazione. L’incipit bellissimo, con un James Coburn che già giganteggia, fa il paio con l’epilogo, in cui con un rallenty alla Peckinpah i due ultimi giganti del titolo si ammazzano a vicenda, con fiotti di sangue in linea con l’epoca della violenza esasperata. Lo sviluppo narrativo tocca molti topoi del genere, ma il meglio lo vediamo nelle scene dedicate a James Coburn e al suo Provo. La cattiveria che gli cresce dentro è scandita dalla sue pose, sempre più nervose; dal suo viso, sempre più innervato di odio; dalle sue battute, sempre più lapidarie. Il gioco al massacro reciproco diretto dal regista è silenzioso, quasi spersonalizzato, tutto incentrato sull’iconocità degli interpreti, dei loro ruoli e dell’immaginario che si portano addosso. Un grande western moderno, non degno magari dei migliori capolavori di Peckinpah ed Eastwood, ma sempre ferocemente compromesso con la rivisitazione del mito americano.
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