Regia di Pawel Pawlikowski vedi scheda film
Polonia, 1949. Viktor (Tomasz Kot) è un pianista di talento che gira per le campagne per ascoltare e registrare le canzoni della più genuina tradizione contadina. Si muove insieme alla collega Irena (Agata Kulesza) e lo scopo è quello di formare il Mazurek, un coro di canto e ballo che dovrà riportare in auge il canzoniere popolare polacco. Ai provini si presenta anche Zuzanna Lichon (Joanna Kulig), una ragazza dal passato un po' controverso dotata di una bellissima voce e di un fascino che non passa inosservato. Tra Viktor e Zula nasce subito una passione cocente, che deve però rimanere discreta per la diversità delle rispettive posizioni sociali. Mentre Zula non sente troppo il peso dell’omologazione ideologica che incombe sulla sua vita, l’aspirazione di Viktor rimane sempre quella di dare libero sfogo al suo talento jazz, cosa che non può fare nella Polonia sovietica. Gli sta stretto il ruolo di direttore del coro, anche a causa delle continue imposizioni al repertorio del governo centrale. Così, nel 1952, durante un’esibizione del Muzarek a Berlino Est, Viktor propone a Zula di seguirlo oltre la zona di occupazione sovietica e fuggirsene in Francia. Ma la donna si rifiuta di seguirlo in questa temeraria avventura. Da quel momento, il loro rapporto sarà caratterizzato da un continuo perdersi e ritrovarsi, tra alti e bassi, tra incomprensioni caratteriali e una passione sempre accesa. Sempre con la convinzione viva in entrambi che il loro è l’amore di una vita che nulla e nessuno potrà far morire.
Cold War” di Pawel Pawlikowski è un film carico d’intensità emotiva, che nel mentre si concentra sullo sviluppo di un’appassionante storia d’amore, non manca di gettare uno sguardo lucido sulla storia della Polonia e dell’Europa negli anni successivi la fine della seconda Guerra Mondiale, quando la cosiddetta "Cortina di ferro" divise il mondo in due sfere d'influenza politiche contrapposte.
Sullo fondo della Guerra Fredda, nasce e si sviluppa una storia d’amore bella e tormentata, destinata a rimanere eterna nonostante la diversità caratteriale dei due amanti e gli ostacoli di diversa natura che ne impediscono la piena realizzazione. Zula e Viktor sanno entrambi che il loro è l’amore di una vita, che potranno anche avere altri amanti, sposarsi addirittura, ma che il cuore saprà sempre dove infine indirizzarsi. Ma sanno anche che non c’è alternativa al fatto di essere destinati a dover rimanere lungamente lontani. Su di loro incombe il peso della storia e la necessità di estromettere il loro rapporto da pericoli inutili. Come si è già accennato, la Guerra Fredda fa da sfondo a questa storia, e anche se non ci viene mai mostrato il volto oscurantista del regime sovietico e neanche accennati gli intrecci geopolitici coevi, la sua è una presenza decisiva per come sa assumere le forme concrete di muri mentali che dividono, di apparati ideologici che ostacolano, di condizionamenti psicologici che allontanano. Il dato rilevante del film è che c’è un mondo che circonda le vite di Viktor e Zula che sta lì, sornione, ad imporre delle scelte le quali, se da un lato impediscono ad un amore di compiersi nei modi e nelle forme più adeguate, dall’altro lato rimangono l’unico modo per preservarlo in eterno. Quella che vivono e subiscono è sempre una libertà vigilata, viva solo quando possono riscoprirsi l’uno la parte indissolubile dell’altra. La fuga è solo una soluzione fallace per la loro voglia di amarsi in totale libertà, che può dirsi compiuta solo se riescono a trasformare il desiderio di stare per sempre insieme nel sacrificio di qualcosa di caro per riuscire ad esaudirlo, l’idea che hanno dell’amore di una vita nel suo compimento assoluto. Due amanti come Zula e Viktor sono perfettamente coscienti che nulla e nessuno si frapporrà tra loro in maniera definitiva. Che questo compimento avverrà necessariamente.
Pawel Pawlikowski è stato bravo a mostrarcene l’evoluzione, sia frammentando la narrazione con marcate ellissi narrative, sia giocando di sponda con gli spiriti musicali del tempo. Nel primo caso, i quindici anni presi in considerazione (dal 1949 al 1964) si sviluppano come una sorta di micro capitoli tesi ad informarci su come il tempo trascorso e lo spazio in cui ci trova ha agito sulle rispettive vite e sulla natura del loro rapporto sentimentale. Espediente che è servito a rafforzare l’unicità straordinaria del loro amore il quale, al di là di qualsiasi vincolo spazio temporale, aspetta sempre e solo il momento per potersi manifestare. Nel secondo caso, invece, la musica rappresenta l’elemento che consente ad entrambi di sopravvivere nonostante manchi ad entrambi l’unico scopo utile capace di dare piena vitalità alle loro esistenze. Polonia, Germania Est. Jugoslavia, Francia, i luoghi cambiano e il tempo passa, ma la musica rimane l’unico modo per mostrare senza condizionamenti di sorta la bontà dei rispettivi talenti. Pawlikowski ne fa l’unico anelito di libertà in mezzo a un mondo ingabbiato nel grigiore ideologico, usandola anche in modo simbolico per decretare la superiorità del talento artistico che si esprime attraverso lo spirito libero sull’oscurantismo di regime che vorrebbe indirizzarlo per finalità propagandistiche. Le canzoni popolari cantate da Zula nascono dal popolo e testimoniano della capacità di resistenza di un paese martoriato. Ogni indebita intromissione del potere centrale ne svilisce la carica etnografica e ne snatura la genuinità. Il Jazz suonato al piano da Viktor è il massimo a cui può aspirare per produrre una musica totalmente svincolata dal rispetto di vincoli codificati. Parigi è la sua patria elettiva come la fuga è un fardello da cui non può prescindere.
Dopo “Ida”, Pawel Pawlikowski si conferma un autore in evidente crescita creativa, capace di dare respiro alla storia del suo paese pur rimanendo attaccato alle passioni e ai sentimenti dei suoi attori protagonisti. Sempre bello il suo bianco e nero carico di luce (sempre dalla fotografia di Lukasz Zal), che conferisce rigore alla messinscena senza rimanerne schiacciato. Bel film, con la prima parte ambientata in Polonia, dove una certa impronta antropologica fa sentire i suoi influssi, decisamente migliore della più “convenzionale” ambientazione parigina.
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