Regia di Pawel Pawlikowski vedi scheda film
Tecnicamente perfetto e stilisticamente sublime, il contenuto, una storia d'amore tormentata che attraversa l'Europa della guerra fredda, lascia un po' freddi e distaccati, non raggiungendo gli stessi livelli eccelsi della forma visuale e musicale.
Mettiamo subito in chiaro una cosa: Cold War è un film tecnicamente perfetto, addirittura sublime dal punto di vista dello stile, per l’eleganza di un bianco e nero nitido e lucente, che si sposa alla perfezione con musiche sussurrate e sognanti, che spaziano dai canti contadini polacchi al jazz (da brividi la scena della protagonista Joanna Kulig che canta suadente Dwa serduszka), con una fotografia da manuale ed inquadrature splendidamente studiate (vedi la bellezza con cui è costruita quella del ballo coreografico di fronte alle gigantografie dei leader sovietici), e da questo punto di vista è indubbiamente grande cinema.
Tuttavia la storia, la tormentata vicenda di due musicisti innamorati che si prendono e si lasciano, si rincontrano e si abbandonano, non possono stare insieme, ma nemmeno a fare a meno l’uno dell’altra, rincorrendosi da un capo all’altro dell’Europa degli anni 50 e 60, divisa dalla cortina di ferro, coinvolge fino ad un certo punto, in un’opera che basa il suo innegabile fascino più sulla forma che sul contenuto. Dello stesso regista Pawel Pawlikowski mi aveva molto più emozionato il precedente Ida, dove la perfezione formale si sposava perfettamente ala profondità del contenuto. In Cold War, invece la freddezza del titolo sembra posarsi anche sul suo contenuto, che non raggiunge il livello sublime della sua forma, spegnendo e raffreddando la passione che dovrebbe travolgere i due protagonisti.
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