Regia di Pawel Pawlikowski vedi scheda film
Un film che colpisce, di cui avverti il dolore della vita difficile, con i visi dei funzionari integerrimi e grigi senza divisa, con l’immagine staliniana sul muro degli uffici, pieno di politica, di spie, di atmosfera noir. Ma soprattutto un film d’amore viscerale.
Si scrive “Guerra fredda” si legge “amore bollente”.
Di amori narrati al cinema ce n’è un elenco, di tutti i tipi, ma come quello del film dell’eccellente Pawel Pawlikowski ne ricordo pochissimi, forse quasi impossibile addirittura trovarne uno simile. Un amore forte, più del tempo, più delle avversità degli avvenimenti della Storia d’Europa, partendo dal dopoguerra e per qualche decennio e in diverse capitali, tra abbandoni e ritrovamenti, tra litigi e affetti inossidabili. Un amore non facile tenendo presente che sono due persone di diversa estrazione sociale e con due caratteri ben differenti, ma la scintilla scocca immediatamente sin dal primo incontro.
Lui, Wiktor, un uomo alto e magro, parecchio affascinante: musicista pianista, arrangiatore, appassionato di canti popolari della sua terra polacca, dei piccoli canti contadini, ma amante della bella musica occidentale. Lei, Zuzanna per tutti Zula, è una bionda con tanto di trecciona slava con un carattere coriaceo che nessuno può intaccare, ben addestrata alla vita sin da quando “mio padre mi aveva scambiata per mia madre e una coltellata gli ha fatto capire la differenza”. Sì, due caratteri a volte perfino opposti: lui riflessivo e calmo, bruno e magro, lei impulsiva, reattiva, furba, che si adegua alle circostanze (ora canta canti popolari delle campagne polacche, ora per convenienza cori celebrativi della potenza sovietica e di culto della persona staliniana), ma mai e poi mai a ciò che Wiktor si aspetta, e bionda e in carne. La Cortina di Ferro divide l’Europa con un Muro fisico e sociale e per diversi anni divide anche loro due, che come in possesso di due periscopi hanno lo sguardo e il pensiero che vola al di sopra di quelle pietre e di quella frontiera, per cercarsi e ricercarsi, dopo litigi e delusioni. O magari per semplice opportunismo (di lei).
Son tanto diversi che infatti, quando si conoscono, Zula è appena uscita di galera, altra sua palestra di vita. E da allora nessuno riesce a domarla: tra i due protagonisti è lei quella che tiene la danza. Va e viene, fa di tutto sia per lasciare l’amato che per riaverlo, perfino donando a chiunque il corpo, perché il loro amore è più forte della vita, è più forte di una qualsiasi cortina di ferro, è più essenziale della vita stessa. Perché se il matrimonio deve essere per sempre… per l’eternità lo sia.
Zula è un talento musicale naturale e lo dimostra continuamente adeguando il suo repertorio come la Storia segue il suo corso durante lo sviluppo della trama, che attraversa decenni che vanno dal regime sovietico al crollo del Muro di Berlino. In parallelo ecco i canti campestri della poverissima gente contadina polacca, poi i cori potenti che si alzano verso il soffitto dei teatri dell’Est per celebrare il comunismo reale, per finire con la canzone occidentale e approdare quindi al più sofisticato jazz parigino fino al vinile del successo. Parimenti la Storia europea attraversa la Guerra Mondiale, il Muro, il suo crollo, la democrazia popolare.
Sullo sfondo un’Europa che deve rinascere, dopo quella guerra terribile, e soprattutto l’Est continentale che intacca e condiziona politicamente non poco la vita dei due protagonisti e le loro vicissitudini. E poi, in Polonia tanta neve, che imbianca la fotografia in un bianco nero molto bello controllato dal formato 1.37:1 che aveva già caratterizzato il precedente film del regista, l’altrettanto sorprendete Ida. Un bianco e nero ristretto sullo schermo per rappresentare il grigio di quelle vite e il loro mondo limitato, il grigiore del regime e un amore non facile. Come un film di quei tempi.
Un amore forte come il film, un’opera apparentemente fragile ma invece robusta, ben raccontato da un regista che sa bene cosa fare, giustamente premiato all’ultimo Festival di Cannes. Pawel Pawlikowski non si nasconde e ammette che è stato ispirato dai suoi genitori (a cui il film è dedicato), “i personaggi più interessanti che abbia mai incontrato, in fuga perenne dal socialismo, entrambi liberi e fiammeggianti, come coppia un disastro senza fine.” Sembra di aver letto la trama solo dalle sue parole, tanto sono pregnanti. Un film che è facile definire mélo-drammatico, unione raramente così significativa per un racconto molto mélo(dioso) come un musical (c’è tanta musica infatti, tra l’altro potente e bellissima) e altrettanto drammatico, che raggiunge l’acme nell’ultima scena, apoteotico finale che inchioda alla poltroncina. Un film che colpisce, di cui avverti il dolore della vita difficile, con i visi dei funzionari integerrimi e grigi (rieccolo qui) senza divisa, con l’immagine staliniana sul muro degli uffici, pieno di politica, di spie, di atmosfera noir. Ma soprattutto un film d’amore viscerale.
Joanna Kulig e Tomasz Kot sono pressoché due attori sconosciuti per noi (ben noti in patria) ma sono a dir poco bravissimi! Lui ha un fisico slanciato che mi ha ricordato in alcuni momenti un certo modo di porsi di Daniel Day-Lewis, lei è una bella ragazza che quando si ambienta e si adatta alla vita parigina pare una nuova Marilyn (e canta benissimo!) e perfino rassomigliante all’iconica Jeanne Moreau quando cammina nel buio delle strade umide di pioggia (vedi Ascensore per il patibolo, qui la mia recensione al proposito).
Belli e bravi, meriteranno altri film di successo.
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