Regia di Pawel Pawlikowski vedi scheda film
Pawlikowski rielabora i travagli del suo popolo, allegorizzati nell’odissea di due amanti incapaci di trovare un momento ed un luogo che li possano conciliare.
La recensione che segue la trovate anche sul mio blog.
Ripartire dalle macerie di una chiesa bombardata per ricostruire, sin dalle fondamenta, le basi di una nazione stuprata dalle guerre e dai totalitarismi. A ciò vuole contribuire anche Wiktor (Tomasz Kot), l’affascinante protagonista di Cold War, risalendo alle radici della sua Polonia, storicamente divisa tra comunisti e nazionalisti antisemiti, del popolo e dei suoi canti, per finalmente trovare un’identità comune.
Ancor prima che una storia d’amore, l’ultima opera di Pawel Pawlikowski è un racconto di anime che cercano di definirsi, in una società difficile (il comunismo stalinista) e attraverso un sentimento complicato. Il regista spoglia l’immagine dai colori e da qualsivoglia oggetto scenico che possa distrarre dai reali soggetti, ovvero l’uomo incapace di adattarsi ad un paese che ha cambiato faccia ed una giovane donna che non trova il coraggio di emergere, preferendo restare in un sistema sociale che subordina l’individuo alla collettività. Cold War infatti limita l’elemento narrativo al minimo indispensabile, ponendosi piuttosto come una successione di eventi lineari ma non forzatamente consequenziali: se i particolari risvolti di trama non sono necessari alla visione del pubblico è perché ciò che l’autore vuole mostrarci è il grande ballo della vita, in cui i danzatori si avvicinano e si allontanano, si bramano e si respingono, fuggono e ritornano, il tutto all’interno di un turbinio sentimentale dato dal loro essere, appunto, indefiniti, amanti e sposati, socialisti e capitalisti, polacchi, con amore e risentimento.
Pawlikowski rielabora, con gli strumenti dell’arte ridotti all’estrema essenzialità, i travagli del suo popolo, allegorizzati nell’odissea di due amanti incapaci di trovare un momento ed un luogo che li possano conciliare, e tale scelta estetica bene si accompagna alla critica al kitsch qui sottintesa: il protagonista rifugge l’arte politicizzata ed il potere di quest’ultima di ammaliare le masse. D’altronde, la spettacolarizzazione dei riti fu uno dei perni dei fascismi novecenteschi e l’arte cinematografica può essere autoritaria nella possibilità che ha d’imporre una visione distorta della realtà allo spettatore. Così, in un panorama industriale in cui si tende sempre più all’anonimia autoriale dei prodotti filmici, Cold War si erge come paladino di un tempo e di un modo di fare cinema che (quasi) non esistono più: nel suo stile che ricorda la Nouvelle vague nella volontà di piegare il montaggio alla ricerca di un’impronta personale, che va di pari passo con la recitazione minimale degli interpreti e la preponderante staticità dell’intera messinscena.
Il kitsch appiattisce i sentimenti e le individualità così come la politica imporrebbe che tutte le ragazze dell’accademia di danza debbano avere tratti fisionomici puramente sovietici. Quindi se l’arte non offre più vie d’uscita, all’artista non resta che fuggire ed inseguire la libertà nella vita, che può sempre essere individuata al di là di dove ci si trova, che sia un confine o l’esistenza stessa. Ma ciò che l’autore sembra volerci dire è che il sistema conta relativamente quando si tratta di cercare la felicità, così come l’amore che supera qualsiasi ostacolo è la semplice rimanenza di un’immagine edulcorata, da un film, da un balletto, dalla canzone Cuore; quindi un inganno.
Nel finale si torna alla chiesa bombardata nella seconda guerra mondiale per celebrare due unioni: quella col proprio passato di popolo, tra ciò che si è stati e ciò che si è diventati, in un’inedita armonia col lutto, e quella tra i due amanti, finalmente in grado di definirsi, l’uno nell’altro, nella morte, dove si vedrà meglio. Qui non c’è più nulla da scoprire. Soffio vitale sui campi, il trapasso.
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