Regia di Björn Runge vedi scheda film
Joseph Castleman risponde dal telefono della propria camera e mette in attesa l'interlocutore per consentire alla moglie Joan di prendere in mano la cornetta in salotto e sentire il contenuto emozionante del messaggio. Siamo ad inizio film, l'argomento non ha più segreti e virtualmente si è già esaurito nel dialogo a tre. Il motivo della richiesta di Joe si può intuire dal volto di Joan, un misto di orgoglio e frustrazione che non lascia dubbi nemmeno tra coloro che hanno candidamente ignorato il sottotitolo italiano o dribblato la sinossi prima della proiezione. L'andamento di questo film del resto, è simile al giallo moderno. Conosciamo fin da subito il "crimine" e chi l'ha commesso e scopriamo poco dopo che il giornalista Nathaniel Bone risolverà un caso plasmato sull'apparenza e su reiterate menzogne.
Perché una donna ha dato tanto ad un marito che ne ha saccheggiato a piene mani il talento incassando onori e gloria senza ritegno? Cosa può spingere una donna ad annullarsi interamente, nel pieno rispetto di sé? Poiché il fil rouge di questo film diretto dallo svedese Björn Runge e scritto dalla californiana Jane Anderson (Olive Kitteridge) dovrebbe stendersi attorno a queste tematiche c'è da chiedersi come mai il film sia carente proprio sotto questo profilo e non presenti un'articolata descrizione del rapporto tra i due coniugi al fine di stabilire le dinamiche che hanno spinto Joan a rimanere ancorata al proprio menage, per così tanto tempo, accondiscendendo passivamente alla vanagloria di Joe. Basta veramente una telefonata e il conferimento di un'onorificenza per far crollare un castello di carte? Alcune facili entusiasmi ritengono che il film di Björn Runge sia un inno all'emancipazione di una donna forte e tenace e alcune recensioni di quotidiani americani sembrano spingere verso questa direzione. Forse lo è il romanzo di Meg Wolitzer, da cui Jane Anderson modella l'ossatura del racconto. Di sicuro non lo è lo script della sceneggiatrice americana che, al più, confeziona un abitino dal taglio classico senza scollature e spacchi vertiginosi che lascino intravedere qualcosa di troppo personale della vita di Joan. Direi, al contrario, che in questo film non ho visto nulla della tanto declamata indipendenza femminile invocata dal personaggio interpretato da Glenn Close, costretta, anzi, dalla situazione, a far marcia in dietro subito dopo aver comunicato al marito il desiderio di lasciarlo. Il colpo di scena che si consuma con estrema drammaticità sembra semmai un escamotage per togliere personaggio e narrazione da una situazione di empasse e ridurre le pretese della protagonista a più quieti consigli. Joan viene liberata dalle proprie catene ma nel modo più beffardo e misogino possibile. Una scelta narrativa, quella della Anderson, che in qualche misura rinvigorisce il controllo dell'uomo sulla donna. Anche la minaccia di Joan nei confronti del giornalista che si appresta a scrivere la biografia di Joe è animata dal desiderio di preservare la figura dello scrittore all'ombra del quale è vissuta per anni. Allora dove sta la forza rivoluzionaria di questa donna? Nel mantenere lo status quo per amore di uomo che l'ha tradita svariate volte e non solo sentimentalmente? Non mi convince l'abitino cucito addosso a Glenn Close e non mi convincono i personaggi imbastiti dei soliti cliché. L'uomo che ama solo se stesso e tradisce la moglie risulta così meschino da rendere illogico un così duraturo rapporto. Un marito fedele ed amorevole, benché legato indissolubilmente al proprio lavoro, avrebbe reso più plausibile la scelta di Joan, per altro mai esplicitata nemmeno davanti a Joe che l'accusa di aver vissuto una vita piena e agiata. Se discreta risulta l'analisi sociale che si esplica nelle parole corrosive della scrittrice Elaine Mozell (Elisabeth McGovern) e nei flashback che rispediscono la protagonista negli anni '60, non altrettanto pregevole è la storia che risulta un tantino tirata per i capelli e con caratterizzazioni abbastanza piatte come quelle dei personaggi del Castleman degli esordi criticati dalla stessa Joan. Bravi i protagonisti, invece, da Glenn Close a Jonathan Pryce ma la parte migliore del film è affidata a Christian Slater che duetta alla pari con l'attrice "fatale" nelle sequenze di maggior interesse. In generale, questo "the Wife" mi è sembrata un'opera senza mordente, dalla scrittura classica che dietro un apparente modernismo relega la donna al focolare domestico senza invettive e revisionismi di sorta e non chiarifica nemmeno il rapporto morboso e simbiontico tra scrittore e scrittura. Il fine sarcasmo sulla figura del romanziere cinico ed egocentrico che risponde al nome di Daniel Mantovani è tutt'altra cosa. Ma per quello bisogna cambiare film e soprattutto modello cinematografico.
Cinema Teatro Santo Spirito - Ferrara
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