Regia di Donato Carrisi vedi scheda film
In un grazioso paesino (immaginario) del Sud Tirolo, dal nome di Avechot, visto anche in riprese “plastiche” piuttosto curiose ed originali, in una notte immediatamente precedente a Natale, una ragazzina esce di casa avvolta tra manto nevoso e nebbia, senza mai più far ritorno. Stacco su una telefonata nel cuore della notte, che sveglia uno psicologo, chiamato a presentarsi in polizia: l’agente speciale Vogel, volto noto in quei luoghi per i motivi che capiremo, è stato ritrovato in stato confusionale, finito con la macchina fuori strada, e col vestito imbrattato di tracce di sangue.
Prima di chiarirci le dinamiche di questa situazione, un flashback organizzato in modo molto pedestre, ci porta in una classe ove un professore di chissà cosa pontifica teorie sul male e sull’ispirazione degli autori letterari, fino a che, incredibilmente, suona la campanella e… chi s’è visto s’è visto (una scena originalissima!!).
Poco prima, o poco dopo (chi può capirlo è bravo), troviamo l’ispettore Vogel impegnato nelle indagini sulla sparizione di una studentessa.
L’uomo è noto per il suo comportamento intransigente, per un atteggiamento tendenzioso che, per garantirsi il risultato, lo spinge a collaborare in modo spesso scorretto, usufruendo dell’azione manipolatrice dei media. Anche in questo caso, il suo operato lascerà strascichi e conseguenze in grado di creare urti e colpi di scena che renderanno il caso un affare mediatico di proporzioni globali.
Da un thriller, che qui procede zig-zagando confusamente tra i vari personaggi e senza una troppo plausibile conseguenza temporale, si cerca di disporsi ad accettare anche le soluzioni più ardite, indulgendo sulla inevitabile poca plausibilità di molte situazioni: non è quello il vero problema del film, ma molto, davvero troppo altro. Non mi soffermo ulteriormente sull’intreccio, ma proverò ad elencare alcune situazioni che ho trovato inaccettabili, indigeribili, davvero fastidiose:
-Innanzi tutto l’attacco frontale diretto e rozzo contro l’azione ed il comportamento manipolatore dei media è affrontato certo di petto, ma in modo puerile, macchiettistico, affidato ad attori d’esperienza assai bravi, ma che qui rimangono vittime dell’artificiosità ognuno dei propri personaggi monocordi (la Ranzi) o caricaturali (Toni Servillo, manierato fino all’imbarazzo, pare Pulcinella al Carnevale di Venezia);
-Restando sui personaggi, lo psicologo Jean Reno (attore francofono “di grido” scelto scientemente per dare chance al film pure presso il pubblico d’Oltralpe – circostanza per nulla recriminabile) viene ostinatamente fatto recitare in italiano, tradendo una pronuncia da ispettore Clouseau ridicola, o che comunque non quadra con l’origine sarda del cognome del suo personaggio, o con l’eventuale inflessione germanica che potrebbe identificare l’idioma della gente del posto.
Allo stesso modo il professore e la sua famiglia, si distinguono per scelte comportamentali a dir poco scarsamente plausibili: il professore si prodiga in sermoni evasivi che poco davvero hanno di pedagogico e formativo: voli pindarici sul dove prenda spunto l’ispirazione di un autore letterario, e sul valore del male come fonte di creatività, con punte filosofiche del tipo “Una volta qualcuno ha detto che il peccato più sciocco del diavolo è la vanità”; la moglie di costui, aspirante avvocato stressata per essere relegata in montagna, la conosciamo mentre è impegnata a ripassare nozioni di “diritto minerario…??.. ma quando le si prospetta la possibilità di difendere il marito, si schernisce ammettendo di essere impreparata in campo penale: tanto c’è in agguato un avvocato rapace che avverte il professore con un laconico “e questo è niente professore: la tempesta deve ancora arrivare”.
-Con cadenza insistente ai ritmi di un intercalare, nell’indagine a questo punto esce fuori prepotentemente il famigerato “caso del mutilatore”, che finisce per essere un refrain urlato a sproposito.
-Non contenti del mutilatore, esce fuori, portato a galla da una pazza paralitica (la mitica rediviva Greta Scacchi, ex bellissima anni ’80), il caso delle sei ragazze scomparse trent’anni prima: possibile che a nessun altro sia venuto in mente, posto che si tratta di un tranello nel tranello?
La ragazza nella nebbia è pertanto, a mio avviso – e non trovo nessuna soddisfazione a scriverlo - un guazzabuglio pasticciato narrativamente inaccettabile (con un finale sbrigativo, grossolano, accomodato alla meglio in cui neppure tutto torna per davvero, anzi proprio per niente), involontariamente grottesco, carente soprattutto a cominciare dalla scrittura… circostanza questa, piuttosto controversa e demoralizzante, se si tiene conto che l’autore dello script è, molto prima che un regista, uno scrittore apprezzato ed autore di best sellers notissimi e molto letti.
Non un briciolo di ironia (alla soluzione partecipa pure un gatto rosso, e un grande spazio si rifila pure alle famigerate "trote arcobaleno"...ma si resta serissimi!!!), ma anzi tutto serioso, sentenzioso, con un ostinato "j'accuse" al vorace e fagocitante mondo mediatico che lascia davvero interdetti, rimanendo peraltro solo in superficie.... come uno scoop capace solo di creare scompiglio e facile o morbosa indignazione.
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