Regia di George Cukor vedi scheda film
Tratto da un fortunato musical di Broadway, My Fair Lady è un florilegio di abiti, di bel canto, di raffinatezza, di classe, d’impronta palesemente ed orgogliosamente teatrale, come d’altra parte conferma la robusta cornucopia di premi Oscar artistici che il film ha rastrellato nell’edizione del 1965. Si tratta di uno di quei lavori dove la forma lascia letteralmente estasiati, in preda a sindrome di Stendhal. Tuttavia sarebbe ben riduttivo ricondurre la carica esplosiva del film di Cukor alla sola confezione esterna: mi spingerei anzi ad affermare che i due protagonisti sono talmente vividi e talmente debordanti, che tutta la parte restante dell’impalcatura, pur nella sua magnificenza, quasi si limita a risplendere di luce riflessa. La maggior forza del film risiede nel soggetto, una storia di riscatto, un’epopea d’avvicinamento fra mondi distanti una galassia l’uno dall’altro; in fondo è sempre la fiaba del brutto anatroccolo o di Cenerentola, ma anche il mito di Pigmalione, e certi film di Frank Capra (Signora per un giorno e il remake Angeli con la pistola) una parabola umana che è sempre esistita, se non nella realtà, nell’intimo dei desideri dell’uomo.
In una Londra graziosamente avvinta da una parte, lato alta società, nelle catene dei protocolli avvizziti e delle buone maniere stantie, e dall’altra parte, lato plebe, viziosamente rivolta al vizio, all’inerzia, alla volgarità, si distaccano con nettezza dal conformismo circostante le due personalità di Eliza Doolittle e del professor Higgins, perfettamente aliene dal mondo in cui sono inserite. Eliza è una forza della natura, una sognatrice, quasi una rivoluzionaria in forza della sua ingenua riprovazione verso le differenze di classe: è divina la prova d’attrice della Hepburn, che con ineffabile naturalezza indossa i panni della zoticona - lei che normalmente è sempre stata la personificazione della classe e dell’eleganza - per poi riprendere, non senza momenti di irresistibile comicità, le vesti a lei più congeniali. L’empatia che Hepburn crea con il pubblico è tale da indurci il batticuore nei momenti topici in cui il bel mondo londinese potrebbe smascherarla: un inchino fatto male, una parola fuori posto, un passo errato durante il ballo potrebbero esserle fatali.
La controparte maschile, Higgins, è un fine intellettuale, gran narcisista, sarcastico, dall’eloquio fluviale, è affetto da una certa misoginia - blasé, of course - e mal sopporta le regole della società con cui forzosamente è costretto a trattare e quindi gioca a metterle alla berlina senza che gli altri, eccetto Eliza, se ne accorgano neppure: è un marchese del Grillo, detesta il suo ambiente eppure ci vive benissimo e non potrebbe mai farne a meno, non foss’altro che gli mancherebbe la principale fonte di divertimento (almeno fino all’arrivo nella sua vita di Eliza!).
Higgins ed Eliza non potrebbero essere più diversi per caratteri, estrazione sociale, cultura, tuttavia la loro insofferenza alla rigidità delle classi, a quegli schemi precostituiti - per i quali se nasci proletario devi rimanere tutta la vita un pezzente e un buzzurro, mentre se nasci nobile devi diventare una cariatide di marmo, un automa che trascorre le giornate a ripetere all’infinito gli stessi movimenti, le stesse formule di cortesia, le stesse ipocrisie - è identica e li pone dalla medesima parte della barricata, protagonisti della stessa commedia (o anche dramma, perché con modi diversi i due conducono a loro modo un attacco al sistema). Lo spettatore si rende conto immediatamente che i due sono fatti l’una per l’altra: loro ci mettono solo un po’ di più. Quel tempo che intercorre in mezzo è il cinema.
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