Regia di Gianni Da Campo vedi scheda film
Luciano, pochi anni, abituato a vivere libero in campagna, a seguito della separazione dei genitori, viene messo in collegio dai preti. Incapace di adattarsi alla vita in convitto e alla disciplina imposta dai religiosi, incorre in diverse infrazioni alle regole stabilite. Punito più volte dai sacerdoti, il bambino reagisce mentendo ed isolandosi dai compagni.
Pagine chiuse è uno di quei film che sembrano sorgere dal nulla: un regista appena ventitreenne e sconosciuto, un bambino come protagonista, mezzi finanziari pressoché nulli e competenze tecniche di scarso livello. Però da questo niente nasce la poesia, accompagnata dal mentore di questa operazione, che è Valerio Zurlini. È una poesia fatta di piccole cose e di grandi delusioni: i genitori che abbandonano il ragazzino in collegio, il padre egoista che cerca di sbarazzarsi del bambino anche durante le vacanze di Natale, una madre molto probabilmente vittima della depressione, un ambiente religioso che ha perso quasi tutto, tranne i formalistici rituali, dell'originaria tensione cristiana. Quella di Luciano è vista dal film di Da Campo quasi come un'espiazione per un peccato originale commesso dai suoi genitori, che lo toglie dal suo Eden, fatto dei giochi con il cane e della libertà sognata attraverso la lettura dei giornaletti, per consegnarlo a questo purgatorio in terra, dove l'unica oasi di vera umanità si trova nella lavanderia/stireria del collegio, non casualmente l'unico luogo popolato di donne.
Ovviamente qualsiasi interpretazione non può prescindere dal contesto in cui il film fu realizzato - la data è quella del 1968 e l'opera fu dapprima presentata a Cannes nel 1969 - perché il sottotesto riguarda indubbiamente la contestazione delle istituzioni, quella familiare e quella collegiale nel caso specifico, che di quel periodo costituiva un elemento portante in ogni forma d'arte.
Da Campo non ha la forza d'urto ideologica del Bellocchio dei Pugni in tasca, ma ne possiede l'urgenza espressiva, sebbene confinata in una competenza tecnica di minor valore e compressa da mezzi economici infinitamente più poveri e declinati piuttosto secondo uno stile intimista, che ricorda il già citato Zurlini. È un peccato, in questo senso, che il talento del regista veneto (peraltro intellettuale di ottimo valore, traduttore e cultore del romanziere Georges Simenon) si sia annichilito in pochissime opere cinematografiche che sono rimaste poco o per niente conosciute. (13 ottobre 2018)
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