Regia di Gianni Da Campo vedi scheda film
Il piccolo Luciano, conteso dalla separazione di genitori in conflitto, viene relegato dal padre nel rigido ambiente di una severa istituzione educativa religiosa per allontanarlo dalla figura materna cui è molto legato. Di carattere schivo ma sensibile, subisce la solitudine e il disadattamento di chi non riesce a farsi delle amicizie e dell'ottusa insensibilità di precettori che preferiscono punire piuttosto che comprenderne bisogni ed esigenze. Quando tutti i suoi compagni faranno la prima comunione, piuttosto che confessare di non averla mai fatta a causa della indolente noncuranza del genitore, si accosterà ugualmente al sacramento, venedo tuttavia scoperto dai severi istitutori e per questo colpevolizzato ed emarginato.
Opera prima di un autore sensibile e raffinato come Gianni Da Campo e premiato nella Sezione Giovani del Festival di Cannes del 1969, è un delicato dramma intimistico che affronta con coraggio e intelligenza le scottanti tematiche sociali che affliggevano l'Italia del Boom economico nel repentino passaggio dal tradizionale sistema di valori del dopoguerra a quello di un radicale mutamento dei costumi, sospeso tra una concezione patriarcale della famiglia (il padre che legittima la sua infedeltà con la separazione dalla moglie e l'ostracismo verso quest'ultima a scapito del figlio) e la ottusa bigotteria di un clericalismo pedagogico antimoderno e vessatorio. Al di là degli stereotipi di un inutile didascalismo polemico e delle derive melodrammatiche del tardo neorealismo, il film di Da Campo si pone come un nuovo paradigma cinematografico capace di interpretare, con un linguaggio moderno e poetico insieme, le storture di una società incapace di una reale comprensione delle proprie disfunzionalità ed in questo vicina tanto al lirismo del quotidiano già messo in scena dal giovane Olmi (Il Posto 1961 - I Fidanzati 1963 - La Cotta 1967) quanto affrontato con piglio documentaristico , di lì a poco, nelle prime sperimentazioni televisive di Gianni Amelio (La fine del gioco - 1970). Quel che ne esce fuori è il ritratto dolente e afflitto di un'infanzia emarginata e segregata nella propria incapacità di comunicare con istituzioni rigide e insofferenti (la famiglia, il clero, la scuola) o di esprimere liberamente le proprie inclinazioni affettive e culturali (il cane, i giornaletti, i compagni di collegio) arrivando al paradosso di un una atteggiamento di crudele esclusione dalla vita sociale e religiosa nel momento che dovrebbe invece rappresentare, secondo la dottrina cattolica, quello di massima comunione e solidarietà umana e spirituale (il ragazzo che si allontana muto dai banchi e dall'altare di una Chiesa che avrebbe invece dovuto comprenderlo ed accoglierlo). Film sociale e politico nel senso più alto del termine (certo le rivalutazioni tardive lasciano sempre un pò di amaro in bocca) fu, come il suo autore, osteggiato dalla critica e dalla censura del tempo, ricevendo tuttavia il riconoscimento di un prestigioso debutto internazionale. Il film fu completato grazie al montaggio e l'intervento di Valerio Zurlini cui l'autore dedica la sua ultima e più famosa opera (Il sapore del grano 1986) ed a cui,a nostra volta, ci sentiamo di dedicare queste poche righe ricordandone la sua recente scomparsa.
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