Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
La trilogia apocrifa di Kitano si conclude con questo episodio. Forse il più ascetico dei tre, e forse il più riflessivo. Nel film si parla di uno scontro fra gang di yakuza, anche se, come valeva anche per i due film precedenti, la narrazione è assolutamente secondaria alle immagini. Kitano torna a stabilire una sorta di "piano autarchico" dell'inquadratura, nella quale l'azione che si svolge non è dettata dalle esigenze di sceneggiatura quanto più dalle esigenze psicologiche dell'autore, che ha più volte affermato che spesso e volentieri una sceneggiatura definitiva neanche c'era. Kitano è un regista che parla per immagini, che lavora sui vuoti, sui silenzi, e li rende più efficaci di mille parole; i pochi dialoghi presenti nel film fungono da riempimento occasionale, ma sono totalmente accessori alla dittatura dell'immagine, della follia, della violenza. I personaggi di Kitano si muovono come fossero marionette all'interno di qualcosa di più grande, schiavi di una riflessione esistenzialista sulla vita e sulla morte che li rende impotenti. Per Kitano il modo in cui si muore è importante quanto il modo in cui si vive, e i suoi film lo spiegano bene. Sonatine è forse il punto più alto raggiunto sinora in termini di equilibrio registico e valorizzazione dei silenzi. La dimensione temporale è quasi assente, gli enormi spazi delle spiagge mostrano una sorta di quadro sociale fermo nel tempo. Tutto scorre, lentamente, impercettibilmente..ma porta comunque alla morte.
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