Regia di Takeshi Kitano vedi scheda film
Veterano della Yakuza, Murakawa viene trasferito sull’isola di Okinawa per dare appoggio a una banda locale in difficoltà. Presto si accorgerà che la missione altro non è se non un una trappola mortale che i vertici di Tokyo gli hanno teso per fermare la sua scalata al potere e annientarlo.
È sempre difficile cercare di dare una spiegazione quanto più possibile logica e obiettiva del perché un film sia un capolavoro imperdibile, tanto più quando si tratta di opere così semplici ed evocative. È ancora più arduo quando il solo ricordo della colonna sonora, del finale, delle inquadrature sul mare suscita ancora tante emozioni.
Sonatine è l’esempio più alto di come si possa fare cinema per sottrazione. Kitano ce ne aveva già fatto partecipi ne Il silenzio sul mare, un film i cui protagonisti sono muti. Ma con Sonatine è riuscito in qualche modo ad andare oltre. Serenità e morte aleggiano in perfetta armonia nella spiaggia in cui i protagonisti, in una sorta di bolla spazio-temporale, ammazzano il tempo.
Il contrasto tra la pace evocata dai paesaggi, la spensieratezza degli yakuza ripresa in semplici istanti di svago quotidiano e l’attesa della morte crea una sorta di sospensione onirica, in cui lo spettatore rimane in bilico tra l’illusione che la vita possa procedere così per sempre – tra partite di roulette russa e incontri di sumo – e la consapevolezza che tutto avrà una fine.
E la morte colpisce lenta ma inesorabile, senza boati né grida. Lo spettatore ne è conscio, tuttavia lo shock per essere stati sottratti da quella dimensione tanto serena quanto effimera lascia senza fiato.
Kitano chiude senza lasciare alcuna speranza, nello sguardo desolato di una ragazza i cui momenti di gioia sono già un ricordo lontano.
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