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Ho affittato un killer

Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Ho affittato un killer

di ed wood
9 stelle

Film quintessenziale di Aki Kaurismaki, "Ho affittato un killer" è paradossalmente anche il più chapliniano. E' suggestivo constatare come l'opera con cui il grande regista finlandese dispiega tutto il suo arsenale poetico, con grazia ed ispirazione sufficienti a renderlo un piccolo classico, potrebbe quasi essere interpretata come un calco di uno dei grandi capolavori che Chaplin realizzò negli anni 20 o 30. Forse allora non solo un grande autore fa sempre lo stesso film (come si è soliti dire), ma si potrebbe addirittura pensare che i grandi autori (al plurale) facciano sempre lo stesso film (qualora un peculiare sentimento li accomuni). C'è una inquadratura verso l'inizio che pare presa pari pari da Chaplin: il protagonista Henri, umile, malinconico e solitario outcast senza tempo e senza patria, seduto in disparte ad un tavolo della mensa, a un certo punto guarda in macchina, disperato, sconfitto. Più tardi, quando viene licenziato perchè la sua ditta è stata privatizzata, anzichè protestare per questo, si lamenta del fatto che l'orologio-cadeaux, ricevuto come buona uscita, non funziona: forse nemmeno Charlot sarebbe arrivato ad un tale livello di candore. Ma tutta la struttura del film, dalla trama ai tempi narrativi, dallo schema dei personaggi alla scelta delle inquadrature, fino al tono buffo e triste, ricalca un City Lights o un Modern Times. Il reietto incontra per caso una donna anch'ella tagliata fuori dal mercato del lavoro (=dalla società) e ritrova la forza di vivere; questa improbabile e scalcinata coppia maledetta (lui, un memorabile JP Leaud, sfigatissimo; lei invece decisamente attraente col look dark-punk di Margi Clarke) ne passa di tutti i colori, in un universo umano-criminale-cittadino pieno di furfanti e galantuomini, proprio come nei film di Chaplin. E l'umanesimo melanconico e universale di Kaurismaki, capace di temperarne il controcanto cinico ed amaro senza mai dare la sensazione di "addolcire la pillola", offre a questi "cattivi" sprazzi di intensa compassione: il killer (un Kenneth Colley fatto e finito per la parte) è in realtà un malato terminale di cancro e diventerà il vero protagonista esistenziale dell'ultima parte di film. Fra la delizia di una sequenza di rapina di irresistibile e caustica efficacia e il difetto di un Serge Reggiani forse un po' pretestuoso e sprecato, si dispiegano le tante luci e le pochissime ombre di un'opera non solo riuscita, ma anche fondativa di una certa idea di cinema contemporaneo. A tal proposito, occorre compiere un paio di riflessioni conclusive riguardo a poetica ed estetica di Kaurismaki. La prima riguarda la rappresentazione della povertà. Nei film di questo regista, i protagonisti sono vittime dello spietato meccanismo capitalista e pertanto vivono di stenti. Kaurismaki rappresenta questa condizione scegliendo una terza via fra il realismo nudo e crudo di ascendenza rosselliniana e la turpe mistificazione di tanto cinema "patetico", scegliendo la via di una "poeticizzazione" che, se da un lato offre colori e calore ai decrepiti alloggi sotto-proletari, dall'altro non imbocca questa strada per abbellire la miseria bensì per conferirle dignità. C'è bellezza nelle piccole cose di tutti i giorni, perchè il Capitale può toglierci il lusso, ma non la capacità di cogliere il "bello" in oggetti e luoghi trascurati dall'immaginario consumistico. La fotografia, con un uso raffinatissimo di luci soffuse, riscalda gli ambienti ma al contempo isola i personaggi in una solitudine cronica. La seconda riflessione, connessa alla prima, riguarda la componente post-moderna dell'universo kaurismakiano. Quello allestito del finlandese è un cine-mondo post-moderno fra i più esemplari: i non-luoghi in cui ambienta le sue vicende potrebbero essere una qualunque città globalizzata; Londra, Parigi, Helsinki sono la stessa cosa, posti retti dalle medesime logiche disumane. Rustiche e precarie casette d'altri tempi convivono con ruderi di archeologia industriale; musica dal sapore retrò, emessa da radioline e grammofoni, si alterna alle ballate rock di Joe Strummer. Il presente si accompagna al "senza-tempo"; l'aspra realtà alla favola; lo squallore al "daydream". Tutto questo crea quello straniamento necessario a non farci dimenticare il dramma dei personaggi, ad evitare derive ricattatorie, senza però rimanere schiavi di una visione banale, arida e sconsolata: la tragedia sociale ed esistenziale degli outsider merita immagini di vivida ed ibrida poesia, come quelle di Kaurismaki.

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