Regia di Aki Kaurismäki vedi scheda film
"Nessuno di noi vuole morire, ma tutti dobbiamo farlo."
"Non dovevi abbandonarmi così", "Se è per questo non dovevo nemmeno nascere".
Quale spietato candore si cela e si manifesta al contempo nelle parole e nelle immagini del bellissimo Ho affittato un killer di Aki Kaurismaki, in cui come fosse un Bresson attento all'assurdo piuttosto che al minimalismo del quotidiano il regista finlandese utilizza il suo attonito umorismo per parlare di vita, morte e amore. Il suo presunto minimalismo infatti è indirizzato non tanto ai piccoli gesti quotidiani, né a fatti apparentemente insignificanti, ma tende a rendere "insignificanti" fatti di per sé spettacolari e paradossali, come la scelta di un uomo, un grandioso Jean-Pierre Léaud, di uccidersi, ma che non riuscendoci (bunuelianamente parlando) decide di affittare un killer, per poi ripensarci subito dopo, dopo aver incontrato una bella donna di chiare fattezze nordiche trapiantata a Parigi e venditrice di rose nei pub e nei ristoranti. L'innamoramento, dunque, che non è altro che intesa emozionale resa da Kaurismaki come consapevolezza improvvisa e neanche tanto mediata, in quel bacio spiazzante seguito da una dissolvenza e preceduto da un Vattene via che sembrava porre fine a tutto. Invece è proprio questa la chiave di lettura di questa sorta di Uomo senza futuro, figlio di un cinema, quello di Kaurismaki, teso alla rappresentazione di microcosmi decadenti e proletari in cui un settore terziario non ben definito disumanizza e sfata miti quali la dignità della vita e la pura gioia di vivere, scoprire l'assurdo nella consuetudine, la stranezza nella normalità, l'imprevedibile nel ricorrente giornaliero, fino a far ridere a denti stretti di fronte agli scherzi del destino, a strampalate morti evitabili e all'intersecarsi apparentemente freddo di più storie che si legano per fatti normalissimi neanche fossimo davvero un film di Bresson e si traducono in un puzzle immagnifico seppur dosato e tranquillo, in cui tutto sembra prossimo all'implosione, attuato da una strana mente diabolica che concede un assurdo lieto fine alle disavventure di un inetto che, alla fine, è in fuga da se stesso e da nessun'altro: le sue scelte, le sue decisioni, per quanto siano condizionate dal caso e da un destino davvero burloni, sono dopotutto conseguenza di una decisione (asetticamente descritta dai titoli italiano e originale) squinternata e contraddittoria di un uomo scisso da un lavoro indefinito e inqualificabile che è poi quello rappresentato all'inizio del film nella caustica sala in cui tanti uomini sembrano compiere sempre le stesse congelate attività e al suono della campanella escono freddi e neanche tanto di fretta come fossero oggetto di un'alienazione non solo dalla dimensione quotidiana, ma dalla loro intera dimensione umana. Fino alla scoperta, quantomeno da parte del protagonista (che a differenza di molti altri personaggi sembra capace di elaborare, almeno, delle "scelte"), di una scintilla, di un sentimento, di un carpe diem irrinunciabile che poi è il motore dell'intera storia e di questa sua continua e lampeggiante fuga da un destino buio e mortuario. Kaurismaki muove poco la cinepresa, e quando lo fa è per rivelare improvvisi colpi di scena assolutamente anti-spettacolari (seppur contraddistinti da questi rari movimenti) o per cogliere la semplicità e l'immediatezza di certi gesti, che nella portata superficialmente nulla riecheggiano di malinconica poesia nel cinema al contempo freddo e accogliente del grande regista finlandese, stavolta (come altre volte) in trasferta francese. Un gioiello per leggiadria e sottile cinismo.
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