Regia di Alessandro Redaelli vedi scheda film
Devo ringraziare la mia fidanzata per avermi fatto vedere questo documentario. Chi è nato durante gli anni Novanta ed è cresciuto a Milano, sicuramente, alla vista di certe sequenze in presa diretta, rimarrebbe quantomeno basito. Io non sono stato un santo durante la mia adolescenza. In terza persona, da spettatore, ho visto, notato, vissuto certe realtà sub-urbane milanesi.
Funeralopolis descrive, tramite le vicessitudini di due persone - e non personaggi - , ciò che spesso accade davanti agli occhi di tutti ma tuttavia rimane invisibile. Come se il muro che divide il pensiero dalla realtà fosse creato solo a partire dai preconcetti delle persone.
Droga. Questa è la parola chiave, e non si parla di cannabis o derivati.
Fuga.
Alienazione.
Rabbia.
Morte.
Anarchia.
Trasgressione.
Noia.
Dal punto di vista cinematografico, l'opera di Redaelli è un punto d'incontro perfettamente calibrato tra Amore Tossico e L'Odio. Il racconto realista rispecchia il lavoro passato di Caligari, mentre l'umanità delle persone, dei discorsi presenti nel documentario e il filtro bianco/nero avvicinano molto Funeralopolis al lungometraggio di Kassovitz. Il filtro, quello invece non fotografico, che di norma crea un minimo di distacco in quasi tutti i lavori della Settima Arte scompare ad inizio film, appena Vashish - uno dei due protagonisti - comincia a parlare in camera, come se conoscesse benissimo chi lo sta guardando in quel momento. Ciò che compie nel frattempo spiazza l'occhio di chi osserva. La mente, poi, interpreta tutto e le immagini, mano a mano che scorrono, rimangono più o meno impresse nella mente. Le realtà - in quanto luoghi - descritte nel documentario sono disparate (Bresso, Viale Molise, Rogoredo, Cimitero Monumentale, Sesto San Giovanni) ma appartengono tutte alla medesima sub-popolazione. Un popolo di auto-emarginati, il quale percorre strade contaminate in cerca di un'identità comune che vada contro il sistema, qualsiasi esso sia. Un popolo accomunato da un'autodistruzione dilagante come processo inverso alla creazione di un futuro; dall'attesa della fine come scopo ultimo; da un rigetto violento verso la quotidianità borghese e non, l'omologazione, la perdità di umanità, di sentimenti e di sensibilità verso la natura. La droga accentua le sensazioni, le rende più vivide, più vissute, mentre lentamente brucia il corpo di chi ne fa uso. Il rifiuto sia dell'appartenenza ad una società sia del rispetto del proprio corpo (non della propria persona!) incide, marca, segna in modo indelebile giovani e adulti. C'è chi ancora ha una casa, una famiglia o comunque un appoggio mentre altri, invece, scelgono o sono costretti ad intraprendere l'occupazione come stile di vita ordinario. La fuga da una situazione famigliare violenta, l'esilio dalla società dei consumi, della legittimità, delle tendenze dominanti, la volontà insopportabile di un cambiamento radicale della propria esistenza (dunque impossibile da colmare tramite il trasferimento in un altro Stato o città), le tendenze a ricercare nella droga il deterrente da parte di chi già in tenera età è venuto a contatto - in maniera passiva e non consenziente - con ambienti del genere, sono tutte motivazioni che spingono questa generazione a cadere nel tunnel autolesionista per eccellenza.
Alessandro Redaelli compie un'opera informativa di grandissima importanza, riprendendo uno spaccato perfettamente visibile di Milano di cui, tuttavia, si preferisce non parlare o che si descrive sempre in maniera grossolana, in modo da poterlo giudicare senza alcun senso di riflessione, indagine o coerenza critica verso il reale, il vero, ciò che accade.
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Funeralopolis non acclama e non condanna. Non ridicolizza e non sovra-stima. Non sensibilizza ma rende vivido nell'osservatore il pensiero che qualcosa di profondamente sbagliato sia presente nella nostra società. Quel marcio di cui tanto, troppo anzi, si parla e che ogni volta si allega a qualcosa o qualcuno di diverso non è in realtà descrivibile come materiale o empiricamente provabile. Il marcio si estende in astratto nei modi di fare, nell'arroganza e nel menefreghismo che accomuna tutti quanti, nessuno escluso (senza distinzioni tra noi e loro). Gli spazi occupati, le siringhe sporche, i tagli sulle braccia, le prestazioni sessuali in cambio di pastiglie, le voglie improvvise di voler disintegrare qualsiasi cosa che sia a portata di mano, gli atti pericolosi per gli altri o per se stessi che si effettuano per aumentare l'adrenalina in corpo e sentirsi finalmente in vita. Quanto sono criticabili certi comportamenti se, alla base di essi, si propaga il senso di esclusione dal mondo sociale sia da chi esegue, sia da chi si sente in dovere di poter commentare?
Le scienze sociali - campo di studi a cui io stesso appartengo - spero che un giorno possano trovare una risposta che serva non a definire ma a far cambiare stile di vita alle persone. Sarà, nei prossimi anni, una delle sfide più grandi per tutti coloro che ancora hanno un briciolo di senso critico verso la realtà libero dal giudizio a priori.
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