Non è questione di autoreferenzialità, quanto l’evidenza dei fatti che riguardano Aquaman, il nuovo film di James Wan. Poco giorni fa, in occasione della contemporanea visione di Alpha – Un amicizia forte come la vita e dell’ultima puntata dedicata alle avventure de L’uomo ragno (Spider-Man: Un nuovo universo) scrivevamo di come nel blockbusters hollywoodiano la distanza tra live action e animazione si stesse assottigliando, favorendo la commistione tra i due elementi. Manco ci avesse ascoltato la Warner Bros., che il film di Wan l’ha prodotto e distribuito, ce ne offre un esempio che in un sol colpo si attesta ai vertici di un cinema che fa della riproducibilità del visibile uno dei suoi punti di forza e della tecnica lo strumento per supplire ai limiti delle capacità umane.
Così, se da un lato le particolarità della storia – ambientata per buona parte nelle profondità dell’oceano e nel regno di Atlantide – induceva a un uso preponderante della computer graphic, utile a contenere le spesse senza venire meno alla grandiosità del progetto, dall’altra non si può dire la stessa cosa di alcune parti del film in cui tale elaborazione visiva è presente senza che ce ne sia specifico bisogno. Esemplare, in tal senso, sono le sequenze iniziali, girate in interni e nella porzione di spazio antistante la casa che fa da sfondo all’incontro dei futuri genitori di Aquaman: immersi in una patina di colori inesistenti in natura, i volti di Nicole Kidman e del suo collega appaiono, si, ringiovaniti ma, a renderli tali, non è il frutto del solito make-up bensì di una sorta di morphing talmente massiccio da renderne i tratti artificiali, vicini all’estetica dei cartoni animati.
Nel leggere queste brevi considerazioni, qualcuno potrebbe obiettare che il limite in questione era stato già superato con l’uscita di Avatar, argomentando come a partire da quel momento – in un certo tipo di film – il reale non sia stato più uguale a prima, continuamente rielaborato dagli effetti speciali e plasmato secondo le esigenze del contingente e che, in fondo, il lungometraggio di Wan rispecchia le conseguenze dell’avvenuta mutazione.
Una tesi, questa, condivisibile solo in parte poiché la diversità tra Cameron e Wan è che il primo forza i limiti delle possibilità tecnologiche per creare qualcosa di inesistente, aprendo la strada a ragionamenti sul virtuale capaci di paventare una vera e propria rivoluzione nel modo di percepire la visione cinematografica; il secondo, invece, rimane all’interno del risaputo, giungendo a una perfezione mai verosimile e, per contro, incapace, di trasfigurare l’universo di riferimento. Wan non teorizza alcunché, semmai si prende la briga di riprodurre l’esistente. In questo senso Aquaman potrebbe rappresentare la trasfusione del videogame nel cinema, con le parti recitate a fare ancora da spartiacque tra uno e l’altro.
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