Regia di Laszlo Nemes vedi scheda film
Rimaniamo sempre attaccati alla nuca di lei, al suo viso, alla sua spalla. Soggettiva e pseudo-soggettiva, camera a mano traballante che insegue Irisz attraverso il girone infernale che l’attende, la Budapest di inizio ‘900. È su questa impostazione che si costruisce Sunset, opera seconda per Laszlo Nemes che dopo il bellissimo Saul fia era atteso al varco per capire se fosse in grado di evolvere sulla direzione di una ulteriore demolizione sensoriale, o se troppo convinto del suo stile avesse trovato invece la maniera. Sembra che, tutto considerato, prevalga la seconda alternativa.
Nonostante le splendide vertigini, e il fascino sommesso di una tecnica cinematografica che vorremmo non finisse mai, Nemes comincia dopo un’ora di film a inciampare su una struttura narrativa slabbrata e inconsistente, che diventa improvvisamente centrale poiché comincia a decidere gli spostamenti di Irisz, le sue decisioni e le sue avventatezze. Intanto intorno a lei sembra che il mondo abbia voluto renderla protagonista assoluta e costante degli eventi più tragici. Tentando di dare risposte a se stessa, Irisz non ascolta mai quello che gli altri le dicono di fare, ma agisce con il più basilare desiderio di conquistare una sua totale autocoscienza, dunque agisce solo per se stessa. Il risultato è il suo macchinoso ritrovarsi sempre e costantemente dove si svolge l’azione, relegata quest’ultima (come in Saul fia) al fuori fuoco tutto intorno alla silhouette di Irisz. L’inseguimento è di natura zavattiniana, dardenniana se vogliamo, ma l’effetto finale è espressionistico, eccessivo, quasi aronofskyano. L’eccesso narrativo finisce per demolire l’apparente rigore estetico, poiché trasforma l’andirivieni dei personaggi in altalenanti e indecisi coups de théatre che aggiungano frammenti e indizi a una trama contorta e gratuita. Ogni cosa, alla fine, è sempre detta al proprio posto, e ogni personaggio appare sempre nel momento più giusto, come se Irisz alla fine fosse circondata da semoventi deus ex machina antropomorfi. Involontaria soap opera.
Nemes non è dunque in grado di dissimulare la costruzione scenica: il calcolo finisce per sbalzare sulla superficie della pellicola, mostrandone la debole impalcatura. Tra l’altro, non solo si entra in pieno regime manieristico – è un’operazione che ricalca pedissequamente, benché in un nuovo contesto, l’esperimento di Saul fia – ma dimostra finalmente il vero film responsabile del nuovo fenomeno nemesiano: il Macbeth di Béla Tarr, 1982. Per cui, a conti fatti, Sunset è un film che sbaglia seppur in buona fede, ed è posticcio seppur nel totale rispetto ossequioso delle sue referenze.
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