Regia di Eric Gravel vedi scheda film
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Aglaé (India Hair) è giovane, bionda e possiede morbide fattezze. Una bella ragazza che, tuttavia, non si lascia scalfire dalle emozioni e tiene una certa distanza tra sé e gli altri. Vive sola ed è assorbita dal proprio lavoro in una fabbrica di manichini da "crash test", dove si occupa della qualità del prodotto con tenacia maniacale. Aglaé ha bisogno di controllare, suddividere, catalogare per tenere a bada i propri tic, cicatrici ereditate da un'infanzia sregolata accanto ad una madre spogliarellista e distratta. La sua ansia reclama, continuamente, gesti ripetitivi come aprire e chiudere tre volte il lucchetto dell'armadietto, e niente, nemmeno una pioggia torrenziale, può indurla a interrompere la consueta partita settimanale a cricket, a cui segue la rituale cena tailandese. Aglaé è, a suo modo, felice, come un criceto nella ruota. Una mattina, però, la ruota s'inceppa e le sue certezze vacillano all'annuncio delle colleghe Liette (Julie Depardieu) e Marcelle (Yolande Moreau) che l'azienda sta per chiudere e delocalizzare in India.
Aglaé non ci sta a cambiar lavoro e così, tra lo stupore generale, accetta la proposta farsa di ricollocamento in India con stipendio da fame. Ciprovano tutti a farla desistere dal proposito: i rappresentanti sindacali che tengono in ostaggio la dirigenza, l'aitante e subdola rappresentante legale della ditta, che se la fa col numero uno del sindacato, e le colleghe di lavoro. Ma non c'è verso, anzi, tanta tenacia spinge Marcelle e la povera Liette, cornificata dal compagno sindacalista, a seguire la risoluta collega. Senza soldi e biglietto aereo, le tre operaie sono costrette ad affrontare il lungo viaggio verso l'India a bordo di una scassata utilitaria, un viaggio pieno di imprevisti e strani incontri che consente alle donne di dare un corso alla propria esistenza.
Eric Gravel, all'esordio nel lungometraggio, lavora di fino in fase di scrittura tratteggiando splendidi personaggi femminili la cui complessità mi ricorda le matrioske per il modo in cui i vari aspetti della personalità, celati in fase di presentazione, vengono man mano evidenziati creando stupore e divertimento. Quest'ultimo scaturisce dalle peculiari stravaganze dei personaggi più che da fatti o situazioni raccontate, tant'è vero che la verve comica si affievolisce quando Aglaé, rimasta sola, è costretta ad affrontare l'ultima parte del viaggio, ed il regista, a quel punto scarsamente interessato dai risvolti comici degli eventi, con l'aiuto della splendida fotografia di Gilles Piquard, si sofferma sul cambiamento interiore della protagonista, che il paesaggio deserto e incontaminato delle lande asiatiche suggerisce. Si torna a sorridere a destino quando Aglaé, arricchita dalle esperienze maturate, si apre al mondo con disinvoltura, come sottolineato dalla sequenza in cui abbandona i tanto cari manichini, dietro la cui sicurezza si era vigliaccamente nascosta, per abbracciare una vita di nuovi affetti, sogni e speranze.
Una favola buffa raccontata con grazia, che ironizza sulle nostre fragilità di uomini e donne moderni indissolubilmente legati alla sicurezza di oggetti e abitudini, e poco inclini a lasciarci trasportare da genuini rapporti interpersonali che ci aprirebbero alla bellezza della condivisione e dell'accettazione della diversità.
Ma anche film pungente che apre il cuore al sorriso, piuttosto che alla risata, facendosi beffe del materialismo e dell'economia insostenibile, pur lasciando spazio alla speranza che tutti si possa diventare un po' meno manichini, un po' più esseri umani.
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