Regia di Abbas Kiarostami vedi scheda film
La regione iraniana del Gilan è stata colpita da un violento terremoto che ha provocato molte vittime. Un uomo (Farhad Kheadmand) e il picolo figlio Puya (Buba Bayour) si mettono in viaggio da Teheran per raggiungere Koker, una delle città sconvolte dal terremoto. Sono in apprensione per la sorte del piccolo protagonista del film "Dov'è la casa del mio amico" e vogliono andare a constatare di persona il suo stato di salute. Durante il viaggio chiedono informazioni un po' in giro, tutti si ricordano di lui perchè il film lo ha reso famoso, alcuni non sanno dire come se la sia cavata insieme alla sua famiglia, altri assicurano di averlo visto sano e salvo. Il viaggio diventa anche il modo per sondare l'umore di un popolo in ginocchio e certificare che la voglia di continuare a vivere rimane più forte dell'abbattimento scaturito dalle sciagure subite. Sono soprattutto i mondiali di calcio del 1990 a rappresentare il momento d'evasione a cui nessuno sembra voglia rinunciare.
"E la vita continua" di Abbas Kiarostami è un film che annichilisce sul nascere il dramma del terremoto attraverso una narrazione che sublima nel candore di fotogrammi carpiti dalla realtà circostante la professione di fede per la vita. Un film di disarmante resa figurativa che attraversa le rovine provocate da un terremoto per consegnarci distillati di fiera resistenza alla tragedia.
"E la vita continua" arriva dopo il film "Dov'è la casa del mio amico", i cui piccoli attori protagonisti sono proprio l'oggeto della ricerca intrapresa dai protagonisti di questo film, e prima di "Sotto gli ulivi", dove si racconta di come un regista, chiaro alter-ego dell'autore iraniano, stia preparando le riprese del film "E la vita continua" nelle località colpite dal terremoto e di come un protagonista del film fatichi ad entrare nella parte perchè nella realtà è veramente innamorato della donna che interpreterà sua moglie. Tre film dunque che si rincorrono vicendevolmente generando di fatto un rapporto di intima specularità tra la finzione filmica e i segni della realtà che s'intendono proiettare verso l'esterno (espediente usato anche da Jafar Panahi, aiuto regista per molti anni di Abbas Kiarostami, per il bellissimo "Lo specchio"), tra la vita intesa come il riflesso dell'intrecciarsi continuo di tante accadimenti esistenziali e il cinema come luogo della loro verosimile rappresentazione. In effetti, c'è un qualcosa di assolutamente imperccettibile che lega il cinema di Abbas Kiarostami alla vita che scorre, facendole diventare parti tra loro, non solo iterdipendenti, ma anche funzionali l'un l'altra. Certamente Kiarostami ha saputo far tesoro della "lezione rosselliniana", ma sarebbe semplicistico parlare di cinema verità o di approccio documentaristico alla realtà contingente, quanto piuttosto riferirsi ad una poetica dello sguardo che ha in mente un idea di cinema che è penetrata dalla (nella) vita, fatta di tutto un insieme di eventi che accadono nella realtà i quali, pur nella loro particolare condizione spazio-temporale, possono assurgere a paradigmi universali attraverso gli strumenti formali offerti dall'arte cinematografica. Ne scaturisce un cinema che, nel mentre si lega alla realtà fattuale rimanendo concentrato anche su degli aspetti apparentemente insignificanti e ai più piccoli particolari, si compone di immagini a tal punto precise sul piano espressivo da saper produrre altro e condurre oltre : ancorarci alla vita per quella che è nel momento stesso in cui ci viene rappresentata per evidenziare la sacralità della sua essenza umanizzante attraverso l'indifferenziata riproduzione di ogni suo singolo momento. Ad Abbas Kiarostami non serve mostrare la faccia drammatica di un terremoto che ha messo in ginocchio tante famiglie per mostrare il peso immane della tragedia che incombe su un paese intero, gli basta disseminare segni lungo un percorso tortuoso, fatto di strade incidentate e ripide salite ; registrare la fierezza di uomini e donne che intendono tirare avanti nonostante tutto, il fatalismo greve con cui accettono ogni tragedia che gli capita di dover subire, frutto evidente delll'abitudine accumulata a doversi confrontare con la morte ; constatare la voglia di evasione che serpeggia nell'aria, tutta assorbita dalla frenesia di non perdersi nessuna partita dei mondiali di calcio che si stanno disputando in Italia. A Kiarostami non serve mostrare la morte per accrescere di senso la sacralità della vita, gli è sufficiente servire su un vassoio dorato il semplice susseguirsi di fatti ordinari per dimostrare come l'esigenza naturale di continuare a vivere la vita che ad ogni persona gli è capitata in sorte, al cinema può trasformarsi in un elegia minimalista compiuta per nome e per conto di un'umanità orgogliosa e dolente insieme, un'umanità che ci viene restituita attraverso le immagini nell'essenzialità delle sue più semplici esigenze esistenziali. Con il cinema di Abbas Kiarostami si danno contributi alla grammatica cinematografica con delicata raffinatezza stilistica.
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