Regia di Alberto Lattuada vedi scheda film
Nella fedeltà al testo omonimo di Bulgakov e nell’originalità,nella libertà di alcuni inserti contenuti nella sceneggiatura,Alberto Lattuada in questa nuova trasposizione di un testo letterario russo ridefinisce l’inclinazione ad affrontare in maniera stringata,e con un linguaggio in cui si avverte il divieto a farvi entrare l’elemento del patetico,le alterne fortune di una piccola personalità che si illude di poter passeggiare a testa alta accanto agli esponenti della società sopraffattrice,e il destino intuibile prima di anima in pena momentaneamente esaltata da una condizione nuova,dalla scoperta della difesa di sé più dichiarata che realmente compresa e assorbita; poi di vittima sacrificale di un nucleo ristretto di mostri travestiti da esseri geniali che non ha saputo comprendere,e quindi definitivamente abbandonare,l’ambiguo beneficio da esso prodotto,in nome di un gusto ingenuo della ribellione.
Dopo la trasposizione impeccabile del “Cappotto” gogoliano e la molto meno persuasiva prova de “La tempesta”(incerta e fastosa versione filmica de “La figlia del capitano” in cui la produzione di De Laurentiis commetteva i consueti disastri seminati un po’ dovunque),Lattuada si riavvicina nuovamente alla forma breve del racconto con questo titolo sentitamente rattristato che,pur senza raggiungere la felicità assoluta del magnifico esito del ’52 con un Rascel impagabile,ottiene in molti momenti l’illuminazione di una scrittura penetrata dalla composta snellezza e dall’alterità nel panorama del cinema italiano ,di oggi come di allora, della messinscena di Lattuada (la cui riuscita risalta nel rigore delle scenografie di Vincenzo Del Prato e nei costumi di Marisa Polidori D’Andrea,e in special modo nella densa fotografia di Lamberto Caimi,un direttore della fotografia quasi mai menzionato tra i maestri riconosciuti di questa professione),un gioco adulto di caratteri sopraffatti e sopraffattori,più democraticamente presentati che nel racconto di Bulgakov,immersi nello scontro che avviene tra chi può ripararsi dal gelo,non solo meteorologico,e chi è condannato ad esserne esposto.
Se fuori non ci fosse quel gelo,non ci sarebbe nemmeno il desiderio di vincerlo,come non ci sarebbe la tentazione di lasciarsi corrompere da un sicuro riparo in cambio della mansuetudine.
Su questa paura di non trovare un riparo,e di penare per poter arrivare alla fine di un giorno che non si sarebbe nemmeno voluto conoscere,può operare,si può esercitare l’acuto disprezzo per la povera gente nutrito da Preobazenskij,un individuo di indisturbata follia per il quale la classe operaria non dovrebbe esistere,da cui nulla dovrebbe nascere,e che,se proprio dovesse permettersi di esistere,sarebbe opportuno confinare ai margini di una società fondata solo per gli esclusi,i vinti,i servitori pescati all’interno di essa come capita a Bobi (Pallino nel racconto) solo per ricordare loro che la condizione di cavie è la sola in cui possano sperare di distinguersi.
Appare singolare l’altezza morale della pietà che Lattuada concede a tutti i personaggi,a differenza di qaunto avveniva nella prosa di Bulgakov che sposava esclusivamente la causa degli umiliati e offesi,come si può notare dal più equo confronto tra i personaggi e dalla conseguente scelta di presentarli tutti,chi più che meno,sotto un aspetto che comunque lo si voglia vedere è umano.
Lo stesso Preobazenskji non è quel pazzoide furente e disgustato da ogni vita che non sia passata sotto i suoi ferri,ma un angelo del male che elabora una vendetta verso la profondità del sentimento che,tormentato com’è,non grazia neanche lui;così come il Bormenthal, di Adorf possiede una sveltezza di tratto e un’immediatezza che vanamente troveremmo nel discepolo dello scienziato disegnato da Bulgakov.
E,soprattutto,in sede di sceneggiatura il Lattuada uomo che amava le donne amplia in maniera evidente l’importanza del principale personaggio femminile,quella Zina cui sottrae un po’ della malizia della pagina scritta per regalarle una serie di gesti ed esitazioni più premurosi e un trattenuto sobbalzo davanti allo scempio di vite innocenti compiuto nel laboratorio-mattatoio di Preobazenskji,in questo aiutato dalla fulminante bellezza di Eleonora Giorgi;e anche lo spazio maggiore concesso a Zoja(personaggio senza nome nel racconto e presente per non più di un paio di pagine)testimonia la gioia di Lattuada nel prolungare la permanenza sullo schermo di un personaggio femminile potenzialmente interessante,anche se in questo caso l’intermezzo sentimentale dei due giovani appare più generoso che realmente funzionale alla storia.
Si potrà anche obiettare che talvolta la direzione satirica e politica su cui Bulgakov aveva impostato il racconto nella mani di Lattuada si sbilanci verso l’aspetto più riconoscibile della commedia italiana,più fruibile e meno filosofica,come si nota dalla impreviste ma rapide stonature della descrizione del circolo dei rivoluzionari,in cui è più facile che l’essere umano Bobinov trovi la confusione della libertà concepita come libertinaggio più che la coscienza della nuova condizione di uomo libero;ma la galleria di personaggi tristi,pericolosamente grotteschi( che tanto sarebbero piaciuti a Fellini,ma che il regista riminese avrebbe filmato senza esitazione piegati sul loro delirio indifferente ad ogni sorta di perdono,per fermarli nella loro smorfia di sconfitti) possiede la matura compassione di chi non emette giudizi,poiché la condanna è già la loro condizione abituale e non scelta.
Questo conferma quanto,pur essendo questa una trasposizione letterale del testo da cui è tratto,Lattuada si distanzi dall’orrore descritto e particolareggiato per mantenere il più elegante dettaglio del terrore,di cui dissemina gli indizi anche nei momenti di apparente spensieratezza.
La disperazione del povero Bobi-Bobinov,cane intelligente ed essere umano irreggimentato,sta nella difficoltà di misurare gli strati della società da una prospettiva che non sia quella dell’essere subalterno che passi dall’obbedienza alla velocità della ribellione,senza avere il tempo né il giusto aiuto per rendersi capace di elaborare la sicurezza di un pensiero e la conseguente esclusività del linguaggio che ne legittimi il diritto all’ascolto e il dovere dell’analisi.
La verità dell’esistere e del vivere,ci dicono Bulgakov e con lui Lattuada,non sta nell’attribuzione di un nome,nella provocazione di un comportamento,ma nella cura della propria vita da parte di chi ha resistito e ancora resiste,cosa che non è possibile se non si ha il coraggio di abbandonare la protezione e la tana,per quanto crudele sia nonostante le sirene incantatrice della società che offre un dubbio riparo.
Lattuada,però, non conclude la vicenda di Bobinov con la stessa perentoria tristezza di Bulgakov,e allo sguardo di quella creatura riportata all’originario mutismo attribuisce la derisoria compassione nei confronti del proprio padrone,quello strano essere affaccendato a crearsi una posizione autorevole nelle periferie della morte,la cui intelligenza ( o,meglio,l’ingegno corrotto) diventa a poco a poco una maledizione,una perdita della coscienza che non lo renderà vincente come crede:se non si può parlare di speranza,non è detto sia impossibile acciuffare una rivincita.
Sorretta e motivata dalla comprensione chiara del testo affrontato,la regia di Lattuada si concentra sulla riduzione dell’esasperazione grottesca,smussando gli angoli più acuti della satira per evidenziarne il significato di parabola umana universale e contemporanea,in cui accudisce i personaggi segnati dalla diverse ferite della povertà,morale e sociale.Direzione degli attori inappuntabile.
Nemmeno tanto sorprendente,anche perché mai veramente sfruttato in occasione degne,nel disegno arrischiato di una creatura aggressiva per paura e docile per destino,cui Ponzoni dà la profondità indifesa e surreale di un mimo che scopra la parola.
Difficile rendere la precisione con cui distribuisce l’astio e il rigore di un doloroso sarcasmo con questa prestazione,sembrando un bizzarro aristocratico nel quale il potere dell’intelligenza diventa lo strumento per localizzare una sublime perversione.
Abbagliante bellezza di porcellana,volonterosa e affranta come chi conti ore e giorni di una felicità destinata a non maturare.
Notevole caratterizzazione in cui Adorf si muove come un discepolo di virtù discutibili geloso della proprio condizione di probabile erede.
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