Regia di Chloé Zhao vedi scheda film
Deluso dal premiatissimo Nomadland, non mi aspettavo che la precedente opera di Chloé Zhao mi avrebbe emozionato tanto.
Con Nomadland questo film condivide gli stessi paesaggi di praterie sconfinate dell'Ovest americano splendidamente fotografate in tutta la loro poetica immensità. Ma rispetto al film premiato con l'Oscar, The Rider mi è sembrato molto più focalizzato e meglio strutturato a livello di sceneggiatura, nel suo racconto di un giovane addestratore di cavalli e rider nei rodei del South Dakota costretto a considerare il ritiro a causa di un incidente di rodeo che gli ha lasciato una brutta ferita alla testa.
L'autrice sceglie come protagonisti una vera famiglia di allevatori equini, i Jandreau, diventati Blackburn nella finzione. Soprattutto il protagonista Brady Jandreau si rivela straordinario, in un film incentrato interamente sul suo personaggio e con la macchina da presa costantemente incollata al suo volto, bravissimo nel tramettere la riflessività sensibile e la ruvida vulnerabilità di Brady Blackburn, affioranti sotto la sua scorza orgogliosa ed ostinata. Certo sta essenzialmente interpretando se stesso e la sua vita, perché anche lui ha subito una ferita alla testa che gli ha impedito di continuare le competizioni di monta. Allora brava la Chloé a scovare un personaggio del genere, in grado di bucare lo schermo con la propria ostinazione e con i proprio silenzi. Vero è anche il rapporto commovente con l'amico Lance, rimasto disabile per una caduta da rodeo, e quello tenerissimo, fraterno, con i cavalli: l'animale simbolo stesso del West è l'altro dei protagonisti dell'opera, che ce lo restituisce in tutta la sua nobiltà.
Raccontando questa storia vera, il realismo della Zhao, che in Nomadland mi è parso appiattito su esiti un po' troppo documentaristici e financo evanescenti, qui invece si innalza grazie ad un delicato lirismo e resta “sul pezzo” con la capacità di trascendere la vicenda personale di Brady per comporre una riflessione esistenziale sulla difficoltà a continuare a perseguire i propri sogni anche contro le avversità ed i rischi che comportano e sulla sofferenza connessa al rassegarsi ad abbandonarli, per cambiare il senso finora attribuito alla propria esistenza, con il dubbio se si sia ancora utili a qualcosa nel mondo (“If any animal around here got hurt like I did, they'd have to be put down “: così Brady commenta amareggiato la propria condizione). Il giovane sente anche messa in discussione la sua virilità, in quel mondo macho e duro in cui si è formato e dove sa bene che il rispetto si ottiene mostrando sprezzo del pericolo nel farsi sbalzar di sella da cavalli imbizzarriti: in questo senso l'autrice affronta anche una riflessione sul significato sociale della mascolinità. Il finale anti-mitico ed anti-eroico, con una scelta non di paura ma di responsabilità che sta a dimostrare la maturità raggiunta da Brady, è appropriato per concludere in maniera profonda queste riflessioni.
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