Regia di Guillermo Del Toro vedi scheda film
...e quando il tempo della Bella passò, restò solo il Brutto. Pardon, la Bestia. A dipinger di nero il genere. Del Toro è criticamente amato. Ma qui, francamente, non si capisce perché.
Repetita no juvant.
Elisa, una napoletana priva di voce dalla nascita, dovuta ad una mutilazione alla trachea, ma non sorda, masturbatrice seriale in vasca da bagno, lavora in una base aerea (segreta ?) in Baltimora, negli anni '60. E' lì che conosce e s'infatua del principe marino, presumibilmente nudo ma in visibile calzamaglia, indistruttibile ed impermeabile, finendo per difenderlo strenuamente dal cattivo che vuole farlo fuori a tutti i costi: colpo di scena finale.
Ambiguo nella distribuzione dei ruoli - il dottore russo, Michael Stuhlbarg, paziente "serious man", è molto più buono deghli yankees in divisa e senza, tutti citrulli proni al regime - e soprattutto privo di una vera spinta intellettuale, Del Toro, regista plurisopravvalutato e devoto della patafisica, confeziona un film sdolcinato e completamente alla deriva (basti per tutte la scena canora in bianco e nero in cui la protagonista si erge a diva della musica in confezione "The Artist") sentimentale, capace di far contenti (quasi) tutti: pubblico, critici (??), cinefili. Come sempre, capace di bilanciare (anche grazie agli elevatissimi costi - 20 milioni di dollari di budget - per un film, tutto sommato di genere) tensione politica - ma stavolta i personaggi sono tagliati con l'accetta- e fantasia macabra, costruisce una storia alla Carpenter prima maniera, mescolando situazioni già viste - e non solo per il chiaro aggancio a "Il mostro della laguna nera" di Arnold - ma, alla fine, implodendo senza riuscire a trasformare l'ecatombe finale in un'allegoria dell'autoritarismo (come gli era riuscito in "Il labirinto del fauno, ad esempio), dove tuttavia l'amore può squarciare l'insensata violenza della realtà. Il punto è che, nonostante gli sforzi per rendere credibile una sceneggiatura che fa acqua da tutte le parti - si pensi alla scena del rapimento del mostro - , l'opera risulta forzata e poco spontanea (ogni passaggio, come l'annotazione del giorno di pioggia utile per la scomparsa finale dell'uomo anfibio, è necessario alla vicenda, finendo per accumulare situazioni poco necessarie - le dite in cancrena dell'antagonista, un duttile Michael Shannon - rendendo così piatta e prevedibile la storia).
Certo, il manierismo di cui egli è pregno (i tipici riferimenti pittorici, che vanno da Goya a Rackhman, ma non escludono il Jack Kirby originario) talvolta colpisce ma molto è fuori fuoco (a cominciare dall'aiutante della protagonista, Richard Jenkins, in un ruolo non necessario) e se la forma è congeniale per parlare del razzismo dell'epoca, non basta una semplice scena in un bar - che rinvia anche all'omosessualità osteggiata in America nello stesso periodo - per esprimere con forza il dissenso provato. In definitiva, una lezioncina di mestiere più che una prova di talento, dove il rifugio tipico nella fiaba è un pretesto e non una sagoma importante per la narrazione. Resta la prova di Sally Hawkins, dedita al mimetismo perfetto ma è troppo poco per un film assai incensato e ovunque lodato. Incomprensibile Leone d'Oro a Venezia.
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