In uno dei passaggi più belli di "The Shape of Water" vediamo la protagonista nuda e trepidante di fronte alla creatura marina di cui si è innamorata. Dopo aver consumato una prima notte d'amore e nell'accingersi a rinnovare i riti del nuovo accoppiamento, la donna sente che c'è ancora una cosa da fare affinché quell'unione si possa dire perfetta. Senza pensarci due volte chiude la porta del bagno e apre i rubinetti della vasca e del lavandino, permettendo all'acqua che ne esce di trasformare la stanza in una sorta di gigantesco acquario dove, finalmente, potrà gettarsi nelle braccia dell'altro. Senza entrare nel merito della sua riuscita, la sequenza ci permette di capire quale sia la maniera in cui Guillermo del Toro concepisce il suo modo di fare cinema. Prima che l'acqua diventi la vera protagonista di questa scena, la sensazione immediata è quella di guardare dei frame che non hanno bisogno di ulteriori aggiunte per esprimere l'unione d'intenti che si è stabilita tra i due personaggi. Eppure, nonostante l'evidente perfezione, Del Toro non è del tutto soddisfatto, poiché sente il bisogno di inserire un ultimo dettaglio, capace di esprimere con ancora più energia la passione generata da quell'incontro.
L'istinto di non sentire terminata la propria funzione e la percezione di averla soddisfatta dopo aver (letteralmente) immerso i protagonisti nel mondo che egli stesso ha creato è il medesimo che si produce nello spettatore quando assiste alla visione di "The Shape of Water". Del Toro, infatti, non si accontenta di ammaliare lo spettatore, facendolo tornare bambino attraverso la ludicità di una vicenda (in costume) che mischia generi (non solo la fantascienza ma anche il thriller, l'avventura, lo spionistico e il sentimentale) e toni (leggero e drammatico, a seconda dei casi) per raccontare la storia di un amore impossibile. Con un procedimento uguale a quello teorizzato da Woody Allen ne "La rosa purpurea del Cairo", il film di del Toro prende per mano il suo pubblico e lo accompagna all'interno dello schermo, catapultandolo in un mondo che risulta tanto più coinvolgente quanto maggiore è la forza con cui il regista spinge sull'acceleratore della fantasia e della meraviglia. Nel caso di "The Shape of Water", per esempio, l'esistenza della struttura governativa in cui viene imprigionata la creatura (in tutto e per tutto simile a quella in cui venivano tenuti in cattività Hellboy e i suoi compagni), così come la serie di improbabili personaggi, a cominciare dal - come al solito - "cattivissimo" Michael Shannon, qui nella parte di un agente della Cia paranoico e razzista, all'estroso quanto sfortunato Giles, interpretato dall'inappuntabile Richard Jenkins, sarebbero un'ottima base di partenza per sbizzarrirsi in una narrazione originale e spettacolare. Ma del Toro, capace com'è di dare il meglio laddove altri andrebbero fuori giri, raddoppia la posta in palio, collocando la storia in un passato (gli Stati Uniti della guerra fredda) che gli permette di inventare un universo a misura del suo cinema. E quindi di promuovere la "diversità" - fisiologica (la creatura), sessuale (Giles), patologica (Elisa) - quale fattore di spicco del sua cinematografia.
Oppure, di alimentare il romanticismo che spinge Elisa (Sally Hawkins, davvero brava a fare del suo corpo minuto una "testata d'angolo") a lottare per il suo sogno d'amore, contornandola con i riferimenti di una cinefilia (da "Il mostro della laguna nera" a "La bella e la bestia") che trova casa nella sala cinematografica (perennemente in funzione) situata nel piano sottostante l'appartamento della ragazza. Una contiguità che il film sottolinea con i numerosi piani sequenza in cui la mdp passa indistintamente da un livello all'altro dell'edificio, come a suggerirci di lasciarci andare e di non discernere più tra realtà e finzione. Inserito nel concorso ufficiale della 74 Mostra del cinema di Venezia, "The Shape of Water" è già adesso uno tra i film più belli di questa edizione
(pubblicata su ondacinema.it)
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