Regia di Guillermo Del Toro vedi scheda film
Favola sentimentale e apologo morale, inno al Cinema con la maiuscola e gran commistione di generi, ottimo per chi ama questo genere, buon lavoro cinematografico molto apprezzabile per gli altri.
Un pezzo di storia recente, lutto che Hollywood non riuscirà mai ad elaborare (la guerra fredda, la crisi missilistica cubana, la nuova frontiera kennediana, razzismo, machismo, omofobia) che s’ intreccia sempre e con fili neanche troppo metaforici al presente dell’era Trump, la passione per il Cinema con la C maiuscola che il mostro televisivo divora e consuma e che bisogna a tutti i costi esorcizzare citando a piene mani generi che vanno dal noir al musical, dall’horror al fantasy e alla commedia sentimentale e infine la diversità, in tutte le salse: handicap e condizione sociale (lei Eliza /Sally Hawkins muta e orfana), omosessualità (il vicino di casaGiles/Richard Jenkins) razza (l’amica/collega di colore Zelda /Octavia Spencer): tutto questo nel film che ha vinto il Leone d’oro a Venezia74 The shape of water diGuillermo del Toro.
Ma soprattutto c’è l’Amor che move il sole e l’altre stelle, anche questo con la A maiuscola (e pure con due M, come coniugano felicemente i Manetti Bross nel loro delizioso Ammore e malavita).
Favola incantevole per chi ama il genere, buon saggio di cinema che dosa con maestria tutte le opportunità che un cast stellare, le risorse infinite della tecnica, le ottime maestranze e le collaborazioni internazionali mettono a disposizione di registi acclamati (solo lo studio dei colori, ha detto Del Toro in conferenza stampa, ha richiesto tre anni), The shape of water è un film “visionario”, parola abusata ma a volte serve, attraente, un gotico surreale o iperreale, dipende dal punto di vista, in cui l’ intrigante colonna di Desplat funge da viatico lungo le magiche sequenze.
Fuga nell’irreale quando il reale supera i livelli di guardia, ritorno nel caldo liquido placentare quando fuori è freddo e secco, la terra brucia e i bacini si svuotano, vittoria del Bene sul Male, anche se solo nello spazio di due ore, quando ormai nessuno ci avrebbe scommesso un soldo bucato.
Questo è il cinema, signori, the greatest lesson learned is to love and be loved in return, canta Nico della Nicchiarelli, la più grande lezione imparata è amare ed essere amata in cambio, e amare il mostro coperto di squame è cosa buona e giusta se il vero mostro non è lui ma chi arriva in doppiopetto grigio, rasato e profumato e scaglia coltelli acuminati dagli occhi.
La storia
USA 1962, Elisa (Sally Hawkins) è la donna delle pulizie di un misterioso laboratorio governativo americano. La ragazza ha come unici amici la collega Zelda (Octavia Spencer) e l’artista omosessuale in dismissione Jiles (Richard Jenkins).
L’ordinaria routine si spezza il giorno in cui l’odioso, sadico e minaccioso agente Strickland (Michael Shannon) porta nel laboratorio una creatura metà uomo e metà pesce, catturata in Amazzonia dove è venerata come un dio.
Strickland gode nel torturare il diverso, tra Elisa e la “creatura” ha l’imbarazzo della scelta, in lui si coagula ed esce allo scoperto la parte peggiore di tutti noi (o quasi tutti noi, ancora qualche Santo in giro magari c’è) ma le ciniche torture che infligge alla “creatura” fanno il miracolo (ed ecco la vittoria del Bene su Male di cui si diceva): Elisa prova pietà, si avvicina al mostro, sboccia l’amore reciproco.
Da lì in poi la storia è tutta in salita da un lato (come far vivere un simile rapporto) e in discesa dall’altro (la diversità condivisa diventa forza, riscatto, successo)
Non sappiamo se vissero tutti felici e contenti, le favole di oggi devono avere finali aperti, quel che conta è la forma, e quella dell’acqua è la forma dell’amore.
Per chi ancora riesce a credere alle cosiddette fiabe per gli adulti, a queste latitudini.
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