Regia di Guillermo Del Toro vedi scheda film
Guillermo Del Toro ha finalmente il suo tanto atteso masterpiece. Quando l’elemento fantastico abbraccia il romanticismo più genuino e penetrante, addentrandosi in una quantità incredibile di aromi e generi, senza perdere di vista l’armonia. Arrivando perfino dalle parti di “La La Land”, con le alghe in sostituzione delle stelle.
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«Il tempo è un fiume che scorre dal passato»
Presentato da Alberto Barbera come un incrocio tra La bella e la bestia e Il mostro della laguna nera (ai quali si potrebbero aggiungere ancora tanti altri titoli, cominciando da King Kong), The shape of water vede Guillermo Del Toro alle prese con un passo significativo della sua carriera, in attesa di imbarcarsi nel remake di Viaggio allucinante, annunciato proprio pochi giorni fa. Lasciati da parte i giocattoloni che lo solleticano, di Pacific rim 2 sarà solo produttore, e perso per strada l’adorato Hellboy (causa costi giudicati eccessivi dalla produzione, il nuovo capitolo sulle gesta di questo eroe non lo vedrà coinvolto in alcun modo), si tratta di un ritorno a quelle atmosfere che, tra clima tensivo e componenti fantastiche, riconducono a Il labirinto del fauno, il suo cult per antonomasia, ricoperto di premi, compresi tre Oscar (fotografia, scenografia e trucco). Come se non bastasse, questa volta c’è anche molto altro, con innesti a dir poco sorprendenti.
Negli anni della Guerra Fredda. Elisa (Sally Hawkins) è un’impiegata muta in servizio presso un ente governativo che, insieme alla collega Zelda (Octavia Spencer) s’imbatte in una scoperta incredibile, consistente in una creatura (Doug Jones) a metà strada tra un uomo e un pesce, oggetto di esperimenti eseguiti lontano dalla vista di occhi indiscreti e posti sotto il controllo di Strickland (Michael Shannon).
Mentre Elisa imbastisce con questo essere un rapporto sempre più stretto, tanto da andare oltre l’impensabile, anche i russi ne vengono a conoscenza: il tempo per salvarlo da un destino atroce scarseggia, per cui decide di passare all’azione, spalleggiata dal suo amico Giles (Richard Jenkins).
Nonostante si sia visto assegnare un immeritato divieto ai minori non accompagnati negli States, The shape of water non è un film horror, bensì una favola romantica che, tra un cuore dal battito sostenuto e una spiccata indole visionaria, abbraccia l’ambito del soprannaturale giovandosi del clima da nervi a fior di pelle presente negli Stati Uniti degli anni settanta.
Descritta così sembra una follia difficile da tenere insieme e invece Guillermo Del Toro riesce pienamente nell’impresa, compiendo quel grande acuto che possiede tutte le caratteristiche necessarie per renderlo riconoscibile e amato anche da quella larga fetta di pubblico avvezzo a un cinema di stampo classico.
Tanto per cominciare, il talentuoso regista messicano non perde una virgola della sua passione cristallina per tutto ciò che può essere riconducibile al genere fantastico, né tantomeno il gusto per la creazione di scenografie particolareggiate e movimenti calibrati, che bucano l’obiettivo a cominciare da un incipit folgorante e trasognante.
Viene quindi facile finire introiettati in questa sua visione tra reale e fantasia, con una creatura considerata alla strenua di una divinità e una donna muta e solitaria, con tante intonazioni che prendono precocemente il via, per poi abbracciarne ancora di ulteriori, all’insegna di una contaminazione rigenerante ma anche dell’organicità da progetto pensato scrupolosamente.
Così, più avanza più la tessitura prende vigore, comprendendo continue primavere e conseguenti fioriture che immergono con incantata poesia nei canali del cinema classico, anche direttamente grazie a spezzoni tratti da film, arricchendo un variopinto assortimento retrò che fa affidamento anche sullo spy movie, con la guerra a distanza tra Stati Uniti e Russia, un supplementare escape plan e sulle discriminazioni verso neri, donne, gay e disabili (in effetti, avere citato tutto è quasi parossistico), aggiungendo a parte pure una spruzzata di horror trucido, tra dita mozzate e una povera bestiola dilaniata, e costanti pillole di umorismo.
Comunque sia, in questa riproposizione di un periodo denso di opportunità narrative, il pezzo forte risiede in uno struggente e speranzoso melodramma dipinto sulla tela di una favola romantica, un passo a due che consente a The shape of water di sconfinare completamente in ogni direzione ipotizzabile, arrivando a toccare anche il musical, tra un passaggio fugace al bianco e nero e le alghe a sostituire le stelle di La La Land in una scena polarizzante che meriterebbe di entrare negli annali del grande cinema.
Ovviamente, la grande parte dei meriti di questo risultato vanno attribuiti direttamente a Guillermo Del Toro, uno chef dal gusto sopraffino che ha osato - e mirato in alto - come non faceva da anni, partendo proprio dalle scelte a monte, come avere le prestazioni di un compositore del calibro di Alexandre Desplat, oltretutto riscontrabili nell’assemblamento di un cast dalle grande qualità, che non guarda alla notorietà, e quindi a un più facile ritorno economico, come poi è da sempre abituato a fare, basti pensare alle scelte ricadute su Charlie Hunnam e Idris Elba in Pacific rim o a Ron Perlman e Selma Blair nei due suoi Hellboy.
La punta dell’iceberg è certamente Sally Hawkins, fiammeggiante, espressiva e dotata di una carica vitale straripante, mentre Michael Shannon è un perfetto uomo nero istituzionalizzato, Michael Stuhlbarg è perfettamente credibile in un ruolo double face, Octavia Spencer gioca in casa con la solita anima sarcastica come fa da tempo con estrema regolarità (vedi The help e Il diritto di contare), spalleggiata in fatto di ironia da un divertito Richard Jenkins.
È grazie anche a loro se The shape of water rientra nella ristretta schiera di opere totalizzanti, quelle che vorresti non finissero mai, che al sogno americano, qui rappresentato da una cadillac, preferiscono la magia della sospensione momentanea della realtà, dove il miracolo della processione di immagini cinematografiche tallona quello dell’essenza dell’esistenza stessa.
Un impasto trasversale che non si fa mancare niente: tanto intraprendente quanto afrodisiaco, polifonico per scelta e caratterizzato da un’armonizzata visione crossover. In altre parole, semplicemente meraviglioso.
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